TULLIO – aka QUANDO TI TORNA IN SOGNO IL LICEO

 La scorsa notte ho sognato che mi interrogava il mio professore di filosofia, il mitico Tullio (sì, dai suoi allievi preferiti, ma forse anche da chi non lo era, insomma un po’ da tutti, o forse da chi era così temerario da farlo, si faceva chiamare per nome):

  • Il sostituto d’imposta ti conguaglia a fine anno l’importo in detrazione fiscale con maggiorazione per sostituto coniuge se fai domanda a metà dell’anno fiscale in corso?
  • Ehm…

….no, in realtà non andava così. In realtà ho sognato che mi faceva una di quelle domande da filosofia al liceo classico, un liceo classico fatto a metà-fine anni ’90 (no sperimentazioni greco-free, manco per sogno liceo classico-musicale, per esempio), a cui bisogna rispondere azionando bene bene bene, ma moooolto bene tutti i circuiti mentali.

 Domande a cui non saprei davvero più rispondere – infatti nel sogno subivo l’imbarazzo e il fastidio di fare scena completamente muta. Eh ma come, Heidegger fino all’altroieri ce l’avevi fresco fresco sulla punta delle dita! Hegel sostituito dal sostituto d’imposta non si può sentire. Eppure, tant’è. Il mio cervello negli anni ha sciacquato, centrifugato e poi steso tanti di quei neuroni, evidentemente. Sta di fatto che nel sogno restavo senza parole, di fronte a una domanda di filosofia, quindi in questo momento per me troppo difficile. Oggi sono andata a trovare i miei genitori nell’enorme appartamento sempre più vuoto dove ho passato l’infanzia e l’adolescenza, senza rendermi conto dei privilegi in cui vivevo– figlia di un dirigente, andavo tutti i mesi dal dentista e in vacanza nella casa in montagna e al mare di proprietà della mia famiglia. Lussi che oggi mi sembrano impensabili, lontanissimi. Io, con le mie forze economiche, non ci arriverò mai fin lì. Per mia figlia mi sa a vita vacanze in pensioncine tutto-compreso e alloggetti presi su Airbnb con circa 18 mesi di anticipo, per beneficiare dello sconto early birds.

Ma la domanda è: io mi immaginavo questa vita, cioè quella che sto facendo ora, quando facevo il liceo? Eh, va beh, che domanda. La cosa bella è che quando ho iniziato a lavorare consideravo del tutto temporaneo il fatto di essere una area professionale al minimo sindacale di stipendio. Mi sono sempre detta, ogni volta che ho firmato un contratto di lavoro (e già sono di quelli che contratti ne hanno firmati diversi, realtà ne ha viste diverse): beh da qualche parte bisogna pur incominciare, no? Sono al livello minimo? Niente di strano. Farò gavetta, farò fatica, poi crescerò.  Invece, per la mia generazione il famigerato “ascensore sociale”, quello che nella visione della realtà da boom economico alla quale ci avevano educati i nostri genitori ci avrebbe portato più in alto, ad avere lavori belli, case belle e fare bei viaggi, solo con la forza della nostra bravura e della nostra volontà, ecco, quello lì non solo si è bloccato, ma non è proprio mai partito dal piano R.

Noi credevamo che i nostri studi, i nostri denti allineati (costati milionate di lire ai nostri genitori quadri direttivi e dirigenti, magari loro, a quell’epoca d’oro, con in tasca una maturità classica e basta, perché si sa che una volta il lavoro e le opportunità crescevano sugli alberi), le nostre ottime letture, i nostri modi affettati, ci avrebbero per forza portati a migliorare la nostra condizione. Invece, la dura realtà è che oggi, quando hai la fortuna di entrare in qualche azienda, come niente ci nasci e ci muori area professionale, ovvero per sempre al minimo della retribuzione possibile. Nessuno progredisce, o meglio, ci riescono in pochissimi, e sempre gli stessi, gli amici degli amici, i parenti degli amici, per tutti gli altri drammaticamente non c’è trippa per gatti. Nessuno aveva preparato la generazione X a cui appartengo (ho controllato ora su Google, son quelli come me, nati tra il ’65 e il 1980. Quelli prima sono i baby boomers, e quelli dopo millennials, a quanto pare) ad entrare ed uscire dalla stessa azienda, magari dopo averci lavorato anche 20 anni, senza alcuna forma di evoluzione. Questo è il vomito.

Ma non divaghiamo. Torniamo all’interrogazione di filosofia di Tullio (ciao Tullio, mi ricordo benissimo i tuoi maglioncini verdi intonati agli occhi! mi ricordo di quanto ci facevi impazzire tutt*, poeta e contadino come eri. Mannaggiattè!)

  • Parlami del rapporto tra kant e (ricordarsi di andare a vedere se in qualche quaderno di filosofia c’è la trascrizione di una interrogazione, perché così a mente non mi viene in mente nulla)

Allora, Tullio, cominciamo dall’inizio, non voglio restare senza parole come nel sogno. Non ti so dire più una beata minchia ormai sul rapporto tra kant e xxxx , perché il mio cervello va a mille solo più su sostituti d’imposta e modelli F23 da ricordarsi di pagare per evitare la mora. A proposito, ma dimmi una cosa: voi, che eravate adulti tipo nel 1996, li avevate per la testa i modelli F23? Forse voi eravate adulti più forti di noi. O forse, solo più cazzoni (che, comunque, anche essere cazzoni è a suo modo una forma di forza). Delle due, l’una, non me la conti giusta. Comunque, per non fare proprio scena muta è il caso che vada a cercare l’ispirazione giusta, perché come diceva Nietzsche: perché dedurre, quando si può indovinare? Sono andata su wikiquote: questa frase che ho riportato a memoria manca. Dai, Tullio, vado avanti nella mia risposta e ti dico che prima di tutto devo andare a rivedere i miei occhi da liceale, anche se solo in fotografia. Poi allora forse ti saprò rispondere.

Così oggi sono andata a tirare fuori le foto degli anni delle superiori, e mi sono rivista, a distanza di così tanti anni (io mi sono diplomata nel 1996, dunque 25 anni fa), ho guardato quegli occhi timidi e sorridenti. Nelle foto dell’ultimo anno di liceo mi sono trovata tanto carina, quanto ovviamente sul momento non avevo proprio idea di essere. Sarò stata impacciata e sicuramente presa malissimo dall’handicap che faceva capolino nella mia vita (iniziavo all’epoca ad avere fortissimi acufeni e giramenti di testa, correvo in bagno a vomitare il cuore, i prof sospettavano un grave problema di sostanze stupefacenti, avevano a un certo punto chiamato i miei genitori per chiedere lumi, invece no, niente punture o cose strane, mi girava semplicemente la testa come un cazzo di ottovolante). Sentivo già davvero poco e non sapevo come affrontare il problema, se non nascondendomi, rendendomi invisibile. In ogni caso, guardavo quel mio sorriso sotto le bombe dell’esistenza, tutto sommato felice o forse chissà disperato (due estremi che nella vita tornano, eccome se tornano) e sono stata molto contenta di ricordare quell’anno di liceo be-llis-simo – peccato solo fosse l’ultimo! – che ho passato nella scuola dove insegnavi tu, caro prof Tullio.

Ero finalmente maggiorenne quando, nel giugno precedente, appena finita la seconda liceo (al liceo classico è il quarto anno), ero andata io di persona a firmare per avere il mio nullaosta nella segreteria della scuola dove ero finita prima, per iscrivermi da sola in quella dove insegnavi tu, caro Tullio, perché molte persone che conoscevo me ne avevano parlato super bene, come di un ambiente sano e sereno, in cui si imparava senza tante paranoie. Ero già la mamma e il babbo di me stessa a 19 anni (compiuti quel settembre), cercavo già di aiutarmi da sola, come potevo, anche se la mia vita era accartocciata da quegli acufeni e quelle sensazioni di ovattamento e da quei giramenti di testa che tutti insieme volevano dirmi una sola cosa: stai diventando progressivamente sorda. Gli altri anni delle superiori, invece, mi sono stati rubati dai miei ex compagni bulli, in una scuola bulla-di-merda, dove anche i prof, incredibilmente, perculavano gli allievi non “conformi alla norma”. Che pena le risatine della mia ex prof di greco, quella della vecchia cacca-scuola, quando si rendeva conto che non avevo capito quello che mi stava dicendo, perché NON SENTIVO, nel coro degli sfottò dei compagni. Che pena, cara ex insegnante, chissà se sei ancora viva? Ecco tu comportandoti così hai fallito, hai tradito gli ideali che avrebbero dovuto muoverti. Shame on you!

Queste cose hanno fatto più danni della grandine sulla mia vita. Bulli a scuola, mobbing sul lavoro, le so tutte, eh, vedete un po’. La verità però è che svegliandomi da questo bellissimo sogno liceale, mi sono resa conto che I’m a survivior come cantavano le Destiny’s Child all’inizio degli anni 2000. E di questo sono super orgogliosa. Caro prof di filo adorato da tutt*, spero presto di incontrarti di nuovo in sogno, e tra una Critica della ragion pratica e una lichtung, voglio ricordarmi di raccontarti la roccia che sono diventata, forse anche in parte grazie all’anno bellissimo che ho passato, lì nella tua scuoletta, tanti, tantissimi anni fa.

QUALCHE RIFLESSIONE, A META’ (CIRCA, CHISSA’?) DELLA TERZA ONDATA

Ieri facevo due chiacchiere prendendo un corroborante aperitivo in videochiamata whatsapp con la mia amica chef, donna che sta avanti a me cent’anni luce (come del resto posso dire di tutte le amiche che ho la fortuna di avere).

Le dicevo tra le altre cose che io non so più stare con le persone, sarà che stiamo diventando vecchie grandi, sarà che siamo col tempo più selettive e meno tolleranti, sarà la situazione ingestibile di questa pandemia, che ci sta mandando tutti quanti letteralmente ai matti. Non è per fare una inutile “gara a chi sta peggio” (sì, ho letto anche io l’articolo dell’ottima Tlon sul tema, ne condivido ogni virgola), ma qua secondo me stiamo veramente battendo i coperchi tutti quanti.

Abbiamo delle diapositive:

…oggi sono uscita in auto per raggiungere, insieme a mia figlia (che ha 5 anni e fatica ad arrivare fin lì a piedi) e al nostro cane (che di anni ne ha quindici e dopo 10 minuti scarsi di cammino sviene), l’unico parco nella zona non chiuso al pubblico. E cosa succede? Per la terza volta di fila in tre giorni sono stata affiancata da un’auto con sopra un tizio, uno assolutamente “normale”, apparentemente “benpensante” che ha tirato giù il finestrino per gridarmi in faccia TROIA! Il fatto strano è che subilre insulti per strada mi è capitato ormai un po’ troppo spesso: due volte perché ho atteso di avere la giusta precedenza ad una grande rotonda qua nei paraggi, la terza proprio al rientro dal parco, poco fa, perché in un controviale ho rallentato per non stendere dei ciclisti. Insulti diversi ma sempre in quell’area semantica (zoccola, troia, puttana etc etc).

Peraltro oggi, per difendermi dagli improperi, (pur se ok, anche chissene, vengono da estranei…però dai, danno sempre fastidio), mi sono messa una mano davanti agli occhi, così almeno non sono stata costretta a subire l’obbrobrio di una parola che già di per sé è violenta, gridata da quella bocca piena di bava, al mio indirizzo: T R O I A ! Chissà se un po’ è rimasto male, il brizzolato che voleva che io accellerassi a costo di stendere due ciclisti, a vedere che quel “troia” restava lì, e non riusciva ad arrivarmi? Però devo anche ammettere che questo modo istintivo che mi è venuto, per difendermi, di coprirmi gli occhi per evitare insulti, mi ha fatta pensare chissà perchè ad un clima alla “Cacciatore di aquiloni”. Che cosa ci riserva il futuro? Comunque, sono adulta e vaccinata, sopravvivo anche agli insulti, ma onestamente in 23 anni di guida potevo finora contare sulla punta delle dita le volte che mi hanno gridato dietro per strada. Oggi mi accade tutti i giorni. Ma capita più spesso anche a voi, o solo a me? Ditemi la vostra.

Seconda diapositiva:

…la scorsa settimana ho avuto da dire via whatsapp, che a mio parere è il peggio del peggio, in quanto molto spesso moltiplicatore di scazzi, con una buona conoscente, una mia coetanea, madre nubile anche lei peraltro, nella mia vita da tantissimi anni.

Le ragioni sono apparentemente futili: ricadeva il tragico 19 marzo, nella paganissima Italia (sìssìgnore, pa ga ni ssi ma, perché con così numerosi “santi” non è che i cattolici possano dire di essere poi molto lontani dai politeisti) si celebra San Giuseppe urbi er orbi, alias la Festa del papà. Ho lasciato un paio di messaggi vocali alla mia conoscente con l’idea di commentare insieme la cagata atroce di festeggiare la festa del papà a scuola (per di più quella di mia figlia è statale, quindi laica) – per quanto in lockdown: comunque era prevista una videoconferenza al pomeriggio nel corso della quale si sarebbero “fatti gli auguri ai papà” (NB: le maestre di mia figlia mi hanno detto con ben un mese di anticipo che l’avrebbero festeggiata, tanto le manda in paranoia il fatto che la nostra sia una famiglia monoparentale in cui c’è solo la mamma. Forse, poverette, non ne avranno mai conosciuta una? in ogni caso, si sono giustificate con un ruffianissimo “la dobbiamo fare perché i papà la vogliono”. Mentre mi parlavano, io mi immaginavo digitare nella tragicomica chat di classe su whatsapp un messaggio più o meno così: “faccia/facciano un passo avanti e si dichiari/si dichiarino pubblicamente quel/quei papà che ha/hanno chiamato le maestre a scuola per dire che esige/esigono che si festeggi la sua/loro festa pubblicamente, a scuola! Che già era una festa fuori tempo massimo negli anni ’70!! daje forte che ve vojo vedè ‘n faccia!”. In ogni caso,l’ipocrisia di queste maestre, che si nascondono letteralmente dietro a un dito, si commenta da sola).

Così, mentre caricavo la lavatrice e davo la pappa al cane, ho espresso alla mia buona conoscente un po’ a ruota libera tutto il mio disappunto (ok, dato il tema ammetto che fossero messaggi vocali da fare arrossire un camallo), dando per scontato che comprendesse il mio punto di vista. Mi fa ehhhhm diciamo così molto arrabbiare il fatto che la mia ranocchietta, che il papà non l’ha mai nemmeno potuto conoscere, debba essere obbligata a scuola – per quanto in videoconferenza, visto che siamo in zona rossa e le scuole hanno chiuso: anche se va ancora alla scuola materna parliamo sempre di una forma di programma scolastico – a fare un umiliantissimo “lavoretto” per incensare e onorare pubblicamente questa figura, che nel suo caso equivale più ad un inconsapevole donatore di seme, subito peraltro sparito nel nulla. Ma perché dovrebbe essere educata che è normale “amare” e dedicare tutti gli anni un “lavoretto” (probabilmente di merda, vedi Merdismo come filosofia di vita della grande Mammedimerda) e una giornata di ricordo obbligatoria verso questo personaggio? Perché deve già a 5 anni essere spinta a pensare che le manca qualcosa? Tanto tempo investito a riconoscere le sue emozioni e spiegarle che è giusto essere un filino ma appena appena un filino arrabbiata, (nel caso lo sarà mai, perché al momento è assolutamente tiepida rispetto al tema paterno), ad accogliere le sue eventuali emozioni negative sull’argomento, e adesso devo buttare tutto nel cesso e lasciare che a scuola la umilino con una iniziativa del genere? O le mettano in testa che è in difetto di qualcosa, che deve per forza sentire la mancanza di qualcosa nella sua famiglia? La buona conoscente, che pure per l’appunto conoscevo da molti anni ed è tra l’altro, come dicevo, pure lei madre nubile come me, ha sentito i miei messaggi (doppia spunta blu),  poi me ne ha lasciato uno veramente molto scazzato rispondendomi che IO SONO UNA INTOLLERANTE.

Perché invece secondo lei bisogna tollerare. Visto che tu sei in minoranza. Sei tu intollerante se non capisci che la festa del papà è lecito festeggiarla a scuola anche di fronte ai bimbi che magari il babbo mai l’hanno conosciuto e sentono per una intera giornata (ma anche di più, visto che a scuola da mia figlia ne hanno parlato per settimane intere) i riflettori puntati su un tema che nella migliore delle ipotesi li può mettere a disagio. Sono io intollerante eh, invece dovrei tollerare, come anche Rosa Parks (non che mi voglia in nessun modo paragonare, eh!), doveva in silenzio come probabilmente mille altre volte prima cedere il posto al bianco di turno, anzichè finalmente perdere la pazienza e rispondergli con un bel NO. Perchè infondo un posto sul bus cosa vuoi che sia? un posto sul bus oggi, un posto sul bus domani…eh ma ci sono cose ben più importanti per cui lottare. Così, oggi saremmo ancora al punto che i neri e i bianchi non possono essere entrambi seduti sul bus, o comunque in posti diversi e in ogni caso se un bianco chiede il posto a un nero, il nero deve lasciarglielo.

 Però, dopo avermi detto che io SONO UNA INTOLLERANTE (che nel caso della festa del papà, in effetti, è pure vero, nel senso che il prossimo anno so già che non la tollererò più, andrò dalla dirigente scolastica a fare un casino della Madonna che se lo ricorderanno in tutto il plesso scolastico nei secoli dei secoli), la mia vecchia conoscente ha tagliato ogni comunicazione, non rispondendo più alla mia richiesta di delucidazioni. A me interessava davvero il punto di vista di una madre nubile che tollera così bene la festa del papà festeggiata in una scuola pubblica che dovrebbe essere inclusiva, anzi, volevo conoscerlo! Ma è sparita nel nulla. E molto mi fa pensare che sarà difficile sentirla ancora.

Terza diapositiva:

…la terza diapositiva riguarda tutte le esplosioni di egoismo, di maleducazione, di scazzo mortale, tutti gli episodi in cui si è litigato (persino in una chat che riunisce lontani parenti, di cui io faccio casualmente parte, e dove di norma ci si sente solo per gli auguri di Natale e per i rispettivi compleanni, temi su cui è davvero impossibile litigare: ebbene anche lì all’improvviso son volati pesantemente gli stracci, per una discussione che non ho nemmeno seguito, a quanto pare sui divieti imposti dalla situazione sanitaria che viviamo o sui vaccini). Il fatto è che la pandemia, con tutto ciò che ha generato di nefasto, ha portato anche, fra le altre cose, a questo effetto: sono caduti i freni inibitori che erano la base della socialità e contemporaneamente le opinioni si sono polarizzate ancora di più. Questo perché oggi anche un gesto come portare o non portare una mascherina è di fatto un gesto politico. La decisione di fare o non fare il vaccino è un discrimine ulteriore che ci dividerà in modo inevitabile, ma anche, secondo me, molto problematico (attenzione: io sono pesantemente PRO-VAX, sia chiaro!). Abbiamo dovuto essere duttili ed adattarci ad una drammatica perdita di socialità, per salvare la pelle, ma siamo arrivati al punto da non farcene più nulla o quasi dello stare insieme. Non troviamo più opportuna, anzi necessaria quella buona creanza, quel pochino di “sopportazione” delle opinioni altrui, anche quando non perfettamente allineate al 100% alle nostre. E sì, senza tolleranza reciproca batteremo i coperchi, ragazzi, le cose andranno molto male, dal punto di vista della nostra psicologia collettiva. E ci saranno degli effetti destabilizzanti sulla nostra quotidianità.

Oggi osservavo come mia figlia e gli altri bimbi al parco mantenessero senza minimamente discutere – né lei con me né gli altri bimbi con i loro genitori – le distanze di sicurezza per evitare ogni eventuale possibile contagio. Da un lato ne ero sollevata, perché non dovevo spiegare a mia figlia per la milionesima volta che non si può fare questo quello e quell’altro, causa coronavirus demmerda, dall’altro però ne ero atterrita, perché mai si sono visti al mondo bambini che per istinto non si avvicinano per giocare. Sarà stato un caso? Smentitemi per piacere. Vorrei sapere che altrove ci sono comportamenti più “normali”, non pazzi che accostano l’auto per gridarti insulti, né parenti ottuagenari che si mandano a cagare per opinioni pro o anti-vax, né conoscenti di una vita che tagliano ogni comunicazione per un messaggio vocale, anziché dirti che la vedono diversamente da te (e spiegarti magari il perché e il percome), né bimbi che si guardano da lontano senza tentare di avvicinarsi. Aspettiamo che finisca questa maledetta pandemia, ma nell’attesa a volte mi sorprendo a chiedermi se saremo capaci di ricostruire la nostra natura sociale. Viviamo alla giornata, ricordandoci ogni giorno per campare nonostante tutto che potremmo sempre essere meno fortunati di quello che siamo, e continuiamo a sperare in bene. Nel frattempo auguriamoci anche che da qua in poi non diventerà la norma doverci coprire gli occhi per non essere raggiunte dagli insulti di un automobilista brizzolato dietro di noi, che ci grida tutto il suo odio, con la bava alla bocca, perchè voleva a tutti i costi passare col semaforo rosso.

LE MIE SERIE DEL 2020

Invece degli auguri, a voi una brevissima e per niente esaustiva carrellata dei miei personaggi preferiti, fra quelli delle tantissime serie che ho visto per impiegare il tempo in questo tragico Anno del Divano (che fra una manciata di ore ci saremo lasciati alle spalle):

1-BLANCA – POSE:

Miss Blanca è stata per me IL personaggio definitivo delle mie serie 2020 . Madre come madre nessuno sullo schermo mai, con un piezz’e core grande così (mood Sophia Loren de “La Ciociara” per intenderci), Blanca ci parla con le sue azioni di una dimensione della maternità in cui solo l’amore e il sacrificio per l’Altro può dare la forza di superare gli ostacoli della vita. Quasi ad ogni singola scena di Pose, Blanca ci ripete che lei è a mother, ed in ragione di questa condizione tutto quello che fa e che pensa gira intorno ai kids che ha scelto di adottare, portandoli a vivere nella sua House of Evangelista, che fonda all’inizio della serie. Ho adorato Blanca, mi sono tanto commossa percependone lo spessore umano veramente di mother courage, che sprona i figli (figli adulti, non partoriti, raccattati per strada tra gli ultimi degli ultimi) a fare del loro meglio, ad andare nel mondo per prendersi quello che gli spetta. Sceneggiatori ed autori hanno creato questa incredibile serie ricostruendo con pochi fronzoli la comunità delle Ballroom, in una New York anni ’80 piuttosto decadente, pericolosa, ben diversa dalla città gentrificata che tutti abbiamo conosciuto nei nostri viaggi recenti. A New York nel 1980 la polizia ha registrato 180.135 azioni criminali, tanto per capirsi. In Pose vediamo rappresentati i rischi, i drammi, la povertà, la comparsa devastante dell’HIV, le violenze subite dalla comunità queer, che si raccoglie e si fa forza da sé nelle Ballroom e nelle House.  La scena preferita: quando Blanca si esibisce sulle note di The Star-Spangled Banner interpretata da Whitney Houston è proprio difficile non sciogliersi:  io ammetto di aver pianto senza ritegno tutte le volte che l’ho vista e rivista. Blanca, sarai sempre nel mio cuore! Sei la super Mother che ho sempre sognato di essere anche io.

1 ex- aequo: ANGEL-PAPI-PRAY TELL-ELEKTRA- JUDY (in breve quasi tutti gli altri personaggi di POSE)

A pari merito tutti gli altri personaggi, non meno adorabili di Blanca (Blanca ha questa cosa della super-maternità che ha catturato definitivamente il mio cuore): Angel, la statuaria, l’ingenua, quella che nella vita mette al centro l’amare ed essere amata, nella dimensione della ricerca della propria metà sentimentale. Lei è la vera pupilla di Blanca, che ne vede una perfetta futura Mother, perché accogliente, altruista, insomma, la candidata ideale a cui passare un giorno (ahimè vicino: Blanca è malata di HIV, nell’ultima, struggente sequenza della serie è in sedia a rotelle, la salute la sta abbandonando) il testimone della House of Evangelista. Papi, personaggio partito come poco più di una comparsa: un vero scugnizzo, quasi la caricatura del ragazzo senza arte né parte che vive ai margini, spesso mettendo insieme il pranzo con la cena dedicandosi ad attività illecite. Eppure si evolve, diventa memorabile: l’amore per Angel lo traghetta in altro da sé, verso una nuova vita in cui finalmente anche il suo talento può sbocciare, anche la sua vita può decollare. Pray Tell, interpretato dal super pezzo da 90 di Broadway Billy Porter, bravo e credibile nella parte dell’MC un po’ predicatore, un po’ Father di tutta la comunità che gravita intorno alla Ballroom. Ho amato anche parecchio Elektra: all’inizio della serie è cattiva come pochi, ma poi cresce, riuscendo (pur conservando sempre l’autenticità di tutti i suoi limiti e difetti, insomma i suoi atteggiamenti da vera stronza) a sviluppare tutte le sue sfaccettature.  Infine, menzione obbligatoria anche per l’infermiera Judy, interpretata da Sandra Bernhard, negli anni ’90 compagna nella realtà di scorribande di Madonna, proprio negli anni di Vogue e della super wave della Ballroom. Lo so, ho scritto poco e male di questa serie pazzesca, questa è solo una carrellata generale, mi riprometto di approfondire con un articolo a parte, perché così non vale, vi metto solo curiosità e no, non va proprio bene per niente.

2- LAGERTHA – VIKINGS

Con le amiche che hanno visto Vikings condividiamo il culto di Lagertha e ci mandiamo via whatsapp gli outtake più fighi che ci capita di trovare, tratti dal set. Fin dalle prime scene di Vikings si capisce bene di che pasta sia fatta la leggendaria shield maiden moglie del re norreno Ragnarr Loðbrók.  Lagertha è la donna che col cazzo che soccombe,  anzi , dorme sempre con le orecchie appizzate (come si dice a Bari vecchia) e se sente che nel buio qualcosa si muove è pronta a scattare in piedi portando mano alla spada o mal che vada al primo attizzatoio del camino che riesce ad acchiappare. La regina dell’immaginaria cittadina vichinga di Kattegat ha un coraggio e una forza pazzeschi. Non esita a ficcare un coltello in pancia al secondo marito Kalf, sentendolo un po’ troppo ambizioso per i suoi gusti (quando il bonazzo Ben Robson che lo interpreta si accascia con la lama nelle budella, ho avuto un sussulto: ammetto di aver pensato: che stronza!). A mia figlia, a tutte le nostre figlie, auguro di essere la Lagertha della loro vita, di non avere mai paura delle loro ambizioni, di sapersi difendere dalle sciabolate, di avere sangue freddo, strategia, coraggio. La scena preferita: tutte le scene di battaglia in cui Lagertha guida le sue Shield Maiden all’attacco mi hanno fatto venire la pelle d’oca, ma la mia scena del cuore è la ricostruzione di Yule, la festa pagana della luce. È vero che l’accozzaglia di bruti vichinghi praticava ancora il sacrificio umano quando nell’Europa cristiana già si sublimava a suon di ostia transustanziata, ma il confronto tra il clima da vero rigor mortis del natale cristiano alla corte del re Ecbert e il rutilante caos colorato e pieno di luce dei festeggiamenti Norreni, mi ha fatto pensare che proprio no, non c’è paragone. Norreni, Norreni tutta la vita.

3– MAURA – TRANSPARENT

Mi perdonerete: qua siamo in piena area Edipo & il suo Complesso, perché Maura, devo dirlo, è il mio padre ideale, quello che ho sempre sognato di avere: tenera, pura di cuore, vuole i suoi kids vicini vicini nei momenti difficili, a tutti i figli ripete in modi diversi: tu sei quello preferito, tu sei quello più simile a me. A chi non piacerebbe sentirsi dire: sei il/la cocc* del tuo papà? Ottima strategia per evitate contrasti tra caratteri potenzialmente discordanti e incasinati come quelli dei figli Sarah, Josh e Ali. Oltre che un padre davvero affettuoso, Maura è anche la dimostrazione del fatto che non c’è amore possibile per chi non ama sé stesso: a 63 anni finalmente si mette in cammino verso la sua vera identità sessuale senza perdere, anzi riscoprendo, l’amore per la sua famiglia (peraltro, come tutte le famiglie sono nella realtà, fatta di veri scombinati.) . La scena preferita: quando, al campeggio-happening femminista, Maura viene riconosciuta quale T woman e cacciata. La figlia Ali (altro mio personaggio preferito, nonostante tutto il peso della sua irritante immaturità) assiste a tutta la scena, cerca con poca energia di difenderla ma lascia che se ne vada da sola. Bella lezione sulla genitorialità: believe it or not, i tuoi figli ti ameranno più o meno come ti amano i gatti, che scoprono la tua esistenza solo quando sei in cucina ad armeggiare col patè (ok, ok, non tutti i figli, non tutti i gatti….).  Ma per te, genitore, non cambierà nulla, l’amore continuerà a zampillare dalla tua fonte interiore e a scendere a cascata sulle tue creature ingrate ed egoiste, nei secoli dei secoli. Amen. Maura papà dell’anno, di ogni anno, per sempre nel mio cuore.

10/03/2020

23esimo giorno in cui mia figlia è  a casa da scuola. Neppure durante le ferie estive, mai.

Questa contingenza è capitata perché l’ho tenuta già a casa da scuola la settimana prima delle vacanze di carnevale, la settimana del 17 febbraio, per evitare che si ammalasse, in vista appunto della sua festa di compleanno dei 4 anni, organizzata con mesi di anticipo proprio per quel 23 di febbraio, che, a posteriori possiamo dirlo, è stato il primo giorno di emergenza collettiva riconosciuta, con la comunicazione asciutta ma forse proprio per questo terrorizzante, della chiusura delle scuole e delle prime cautele da osservare nell’andare a lavoro – ovvero nell’invito urbi et orbi a lavorare da casa in smart working.

La nostra giornata media in autosemiquarantena si svolge così:

sveglia al mattino tra le 7 e le 8, colazione, poi ci si veste e si esce per far fare un giretto a Spud – il nostro vecchio cane-leone durante la passeggiatina di oggi è stato aggredito da un altro cane proprio durante i suoi due passetti mattutini.

I primi giorni di isolamento si andava al bar sotto casa a prendere il cappuccino e la brioche, oggi non si fa più perché è pericoloso transitare per i locali pubblici. Questo virus pare sia dapperutto, è subdolo, oggi lo prendi e stai male malissimo fra 2 settimane, nel mentre attossichi tutte le persone che ti stanno vicine, per questo è cosa saggia isolarsi, condividere la tua possibile carica virale solo con te stesso ed i famigliari con cui dovresti in ogni caso vivere. Con queste persone, i tuoi famigliari, con cui fino a 3 settimane fa dividevi la camera da letto di notte o, al più, il tavolo della cucina giusto il tempo della colazione e della cena, devi abituarti a vivere negli spazi spesso ristretti delle case.

Proseguo con la nostra giornata: si torna a casa, dove io mi collego a lavoro, facendo una fatica pazzesca visto che ho spaccato quel fatale 23 febbraio scorso il mio impianto cocleare di sinistra. Al momento sento come vedrebbe una talpa che sta facendo un’immersione (troverete spesso questa metafora scritta da me, perchè mi piace molto, descrive molto bene la mia situazione quando mi parte un IC). Sono in attesa del muletto (per due IC nuovi credo ci vorranno settimane e forse anche mesi…) Siccome a causa del virus si deve lavorare in smart working, posso collegarmi, perchè con le cuffie, lontana dall’ambiente rumoroso dell’ufficio, è fattibile. Il muletto, poi, arriverà. Non sentirò bene come con il mio adorato Nucleus, ma abbastanza da poter lavorare, armata appunto delle mie cuffie circumnaurali da player (con cui immagino che un normudente senta anche l’erba crescere).

Quando invece non lavoro, la mattinata scorre in attività varie: io metto in ordine e pulisco ogni anfratto della casa: infatti mai è stata così efficiente, linda e ben gestita, in ogni armadio, armadietto, spigolo, angolo, ripostiglio; a 360 gradi dopo 23 giornate passate chiuse dentro (per me anzi 23 meno 7 cioè 16, comunque una enormità che mai neppure durante alcuna vacanza “lunga”). Ora posso dire con orgoglio che questa è una casa funzionale, come per una ragione o per l’altra – per mancanza di tempo, essenzialmente  – non mi era mai capitato che fosse.

Poi preparo il pranzo: siccome sono preoccupata per il fatto che mia figlia mangia sempre ossessivamente pasta al burro e hamburger, ogni tanto provo ad offrirle altro: domenica scorsa, per esempio, ho prodotto un ottimo (non lo dico per dire, ma è venuto veramente ottimo) risotto alla salsiccia, che lei, dopo mille giravolte e continuando in ogni caso a ripetermi che LE FACEVA SCHIFO poi ha mangiato. Dopo pranzo, nel pomeriggio, quando la mia polpettina quattrenne si sveglia dal pisolino ed io ho finito di lavorare, ci vestiamo velocemente ed usciamo un pochino, così il vecchio Spud può fare un’altra passeggiata, e noi certe volte (i primi giorni di quarantena, quando tutto sembrava, come dire? molto più all’acqua di rose) andiamo al parchetto – dove comunque non c’è mai stata l’ombra di un bambino, mai. Manca solo che tristi balle di fieno rotolino sospinte dal vento, come nel west. Le altalene, fino a pochi giorni fa, ondeggiano vuote. Oppure facciamo semplicemente un giro per il quartiere. Oggi per esempio ci siamo anche concesse un gelato: la gelateria era manco a dirlo vuota, io me ne sono uscita con una battuta poco felice: Ah, avete riaperto eh, è iniziata la stagione – e la ragazza dietro al bancone mi ha risposto molto tristemente che sì la stagione è ricominciata, ma domani probabilmente già finirà, in quanto sanno già che è allo studio una norma per chiudere anche i negozi non necessari alla sopravvivenza. Quindi, gelato oggi sì, domani chissà.

Ore 18/18.30 a casa, io spalmata sul divano col pc sulle ginocchia, un occhio ad Instagram, uno alla posta ed uno a rai news 24 per conoscere gli aggiornamenti. Va sempre peggio, prima o poi migliorerà, no, la situazione dei contagi? no, veramente i modelli matematici dicono che il picco sarà a metà di aprile…quindi col cazzo che qualcosa ora può andare meglio.

Mia figlia oscilla come un pendolo impazzito tra la sua cameretta, ricolma di giochi, fogli, puzzles, colori, tempere, pupazzi, Hello Kitty, i Pigiamini e Doraemon in tutte le forme e dimensioni, insomma, oscilla tra il suo headquarter colorato e incasinato e il divano su cui sono implosa io. Si sente sola, non capisce bene il senso di quello che sta succedendo. Vorrebbe disperatamente giocare con qualche bimbo. Io ho la fantasia di trovare un bel giorno su Amazon finalmente l’amico robot. Ma cosa aspettano ad inventarlo? ai bambini un bimbo robot con cui giocare in questi frangenti o ad esempio anche quando sono in isolamento perché malati servirebbe molto, una specie di Pinocchio cyborg per figli unici, che li aiuti e li traghetti a suon di partite al gioco dell’oca di Hello Kitty attraverso quelle noiose ore pomeridiane che precedono la cena. Aziende produttrici di Super Mario, ci pensate o no? Che mercato che avreste, eh!

Verso le 20 preparo la cena, in genere una variante di pasta al burro e hamburger, perché ahimè con me mia figlia mangia proprio 4 cose in croce e sempre solo ossessivamente quelle (altro motivo per cui ci manca tanto la scuola, dove mangia molto più vario e sano, anche solo perché vede altri bimbi che mangiano molte più cose di quanto non accetti di assaggiarne lei a casa). Per me, una tazza di latte con dei cereali o una fetta di ananas. L’ansia mi toglie la fame, ma devo dire che ho recuperato una buona qualità del sonno, da quando la mia vita è rallentata e senza un impianto ci sento di meno. Sentirci poco o niente ha anche qualche lato positivo, uno di questi è che si è meno stressati dalla realtà, perché arriva ma è senza dubbio più ovattata. C’è scampo per il cervello, da sordastri, molto più di quando si è normudenti, questo è innegabile.

Poi, dopo cena, mamy va a farsi una bella doccia bollente scioglischiena, finalmente mi tolgo l’unico impianto che mi è rimasto, che porto 24 h su 24 – ovviamente anche di notte, visto che mia figlia ha solo 4 anni e potrebbe sempre avere bisogno di me. Insomma, i minuti della doccia sono i pochi di solitudine che mi posso concedere al giorno, nella mia dimensione senza impianti, che è una dimensione totalmente senza suoni in cui non mi trovo affatto a disagio. Non è terribile come voi normudenti immaginate, o meglio lo è solo perchè io non sono una monade, non sono nè posso permettermi di essere una casa senza porte nè finestre che si affaccia sull’Assoluto. Al contrario, devo vivere alle prese con un mondo che sente e che parla. Altrimenti col mio silenzio vengo a patti ben volentieri, a volte mi ci butterei pure di proposito, come mi butto felicemente sotto la doccia nei miei 10 minuti di relax quotidiani. Finita la doccia, ultimo giro di notizie online e di Instagram, e poi la piccinina va a scegliere un paio di libri da leggere, e, lavati i dentini, si va a nanna. Quando lei prende bene sonno, io mi metto le cuffie e mi guardo un po’ di Raiplay o Amazon Prime Movie o qualche serie su Netflix, oppure apro il mio amato Kindle.

Noi viviamo una realtà molto particolare, perché io ho un handicap importante, avendo perso l’udito a 32 anni (ma sento al 90% con gli impianti cocleari, il fatto è che come ho detto, uno attualmente è rotto); ma anche perché il papà non c’è, da un lato è senza dubbio peggio in questa situazione, perché io non ho mai neppure per 5 minuti al giorno (tranne quando mi sento via whatsapp con le amiche) la possibilità di fare un dialogo con un altro adulto, esponendo magari anche le mie perplessità o magari le mie preoccupazioni. La scorsa notte sono stata svegliata dal suono delle pale dell’elicottero, una cosa in quel momento e per il periodo che stiamo vivendo veramente sinistra. Per qualche ragione, passava veramente lì vicino a casa nostra, alle 3.30 di mattina. Con quale sollievo avrei voluto girarmi e trovare nel letto un altro adulto vicino a me per condividere due parole, o un abbraccio, subito dopo! D’altra parte stare senza nessun altro in casa adesso se non mia figlia e il cane quattordicenne significa diminuire di molto le possibili occasioni di litigi. Questo è innegabile.

Perciò, come sempre nella vita, colgo il lato positivo che uno svantaggio mi presenta, tengo la testa alta e vado avanti, chissà mai che le nuvole nel cielo si diradino e spunti un bel caldo sole dorato. Io non smetto mai di sperare.

15 marzo

28 giorni di quarantena.

La giornata di oggi è iniziata un po’ più tardi, perché ieri notte ho guardato film e programmi in cuffia mentre mia figlia mi dormiva accanto, restando sveglia fino alle 4 di mattina. Dalla strada, là fuori, nessun rumore per il mio unico orecchio biomeccanico, visto che nessuno più si arrischia ad uscire di casa (è il lockdown, bellezza!), invece le cuffie circumnaurali mi hanno permesso di seguire varie cose molto interessanti su Raiplay (canale gratuito su cui basta iscriversi lasciando la propria email), tipo un programma divulgativo sulla Bahuhaus, che è stato a quanto pare molto ma molto di più di quel movimento architettonico di cui abbiamo studiato qualche paginetta alle superiori. Belle scoperte da un documentario visto per caso.

Poi ne ho visto un altro in cui si intervistavano 7 donne famose e “di potere” che raccontavano sé stesse e la propria lotta per arrivare a fare quello che volevano nella vita – una di queste è Fran Drescher, aka la tata dellomonima serie che io vedevo quando ero ragazzina, passando interi pomeriggi parcheggiata davanti alla tv. Pare che la Fran abbia avuto una vita tutt’altro che semplice, è stata violentata, per esempio, sotto minaccia di un’arma da fuoco, e poi ha avuto un tumore. Mentre lo raccontava friggeva nel burro una intera padella di bacon, quella cosa estremamente savoury (per essere gentile!) che io non ho mai apprezzato le volte che ho viaggiato negli Usa – imparando dopo un po’ ad evitarla, a costo di essere scambiata per vegana, che da quelle parti non è un complimento. Comunque, secondo me mangiare il bacon fritto nel burro  – spero che non fosse burro ma almeno margarina vegetale – è davvero da evitare, a maggior ragione se già hai avuto problemi di salute così pesanti. In ogni caso, forte la Fran.

Poi ho visto il Capitale Umano, splendido film di Virzì – io ho una passione per i film di Virzì. Mentre lo guardavo mi sono ricordata di quella volta in cui lo vidi al cinema per la prima volta, mano nella mano con un ragazzo. Dentro di me pensavo E LASCIA STA MANO CAZZO, ero seccata, ero irriconoscente. Sono una stronza, lo sono sempre stata, ho sempre scambiato per deboli merde le persone che mi hanno anche solo vagamente dimostrato affetto, attaccandomi invece alle merde vere, cioè chi mi maltrattava. Andava così, ma ho saggiamente deciso (ormai da anni) di mettere l’aspetto sentimental-sessuale della mia vita in un bel grande STAND BY. Quindi, problema risolto.

La notte è volata e ci siamo svegliate alle 7 passate, che per noi è tardi, soprattutto è tardi per la vescica del cane quattordicenne Spud, che infatti era tutto un cigolio di gioia e sollievo quando, capito che eravamo sveglie, è venuto a salutarci. Abbiamo fatto colazione (flauti alla stracciatella perché quelli al cacao al super non li consegnano più), poi siamo scese con i soliti quintali di spazzatura da smistare nei bidoni appositi: soprattutto la scatola enorme di quello che ieri mia figlia ha ricevuto in dono da babboAmazon, cioè un unicorno di Barbie che fa 25 – sì, 25 – combinazioni di suoni e colori diversi, che io le ho ordinato nonostante il prezzo tutt’altro che popolare, nella speranza che la intrattenga mentre io lavoro (le recensioni dicevano che è una mano santa nell’intrattenere i bimbi, speriamo, va!). Sì, sto lavorando, non ho mai smesso. Sono tra i pochi fortunati ad aver potuto continuare a lavorare, connessi da casa, lo so, infatti ringrazio il cielo tutti i giorni per aver avuto questa fortuna. Anche quando son giornate di fuoco in cui i colleghi, in conference call che non staccano mai dalle 8.15 alle 16.15, in cui mi introducono via skype alle meraviglie degli sgravi fiscali per sostituto coniuge e alla normativa sui 730. Ma beiniteso, lunga vita alla normativa sugli fiscali per sostituto coniuge; que viva el  730! Viva il lavori che si possono fare tra un hamburger e una pastina all’olio da scolare. In ogni caso devo seguire da sola la piccinina, visto che nessuna tata si avventura fino a casa nostra, per tema delle sanzioni previste per chi sgarra il DPCM. La cucciola ha solo 4 anni, quindi come minimo devo prepararle il pranzo e addormentarla per il pisolino…ma chiunque abbia avuto un figlio di 4 anni sa che dovrei seguirla molto molto di più. Per fortuna, lei è davvero tanto autonoma, scolarizzata da un’età precocissima (sì, è andata anche al nido, immersa nel brodo primordiale di virus e batteri fin dai primi mesi di vita, chè mamma doveva lavorare). Tornando ad oggi, (siamo rimasti all’interessantissima quintalata di spazzatura che abbiamo buttato) Spud ha potuto finalmente fare pipì e pupù e mia figlia mettere 10 minuti il musetto fuori casa – musetto ben coperto da una mascherina chirurgica che ho trovato di straforo in una farmacia dove sono cliente abituale, perchè trovarne è davvero difficile. Siamo rientrate, ci siamo lavate le mani contando fino a 20, ci siamo cosparse diligentemente di alcool – anche quello, articolo ormai introvabile, io però ne avevo un boccetto vecchio nell’armadietto dei medicinali – poi abbiamo ripreso le nostre occupazioni. Io ho lavato da cima a fondo la casa, ormai è il mio rito zen quotidiano ( o forse “lavare la casa” is the new “guardare una serie per rilassarsi”), lei ha giocato nella sua tenda del circo dell’ikea (gioco genialissimo che con 15 euro ti sistema i bimbi per lunghe ore). Poi volevo buttarmi nella solita maratona di quotidiani per alimentare con cattiveria inconscia la mia paranoia e il mio stress crescente dovuti non solo alla quarantena ma anche al post quarantena, così come un adolescente guarda un horror strappaocchi per il solo gusto di “farsi paura”. Però io, che adolescente non sono più da un pezzo, ad esempio mi domando: cosa sarà di questo virus, resterà nell’aria come un morbillo qualsiasi, che prende chi non è vaccinato? Cosa faremo fino all’arrivo del vaccino? Dove e come sistemerò mia figlia se, come pensiamo un po’ tutti, prolungheranno la chiusura delle scuole? Se invece le dovessero riaprire, sarò in grado di mandarcela a cuor leggero o spenderò una fortuna al mese di baby sitter per tentare di salvarla dal contagio? Cosa succederà alla nostra economia quando questa emergenza sarà finita? Ci troveremo in uno stato totalitario governato dalle ultradestre xenofobe – poichè le persone in tempi grami si buttano sempre sull’ultradestra? Questi e altri pensieri incandescenti mi si accendono e mi si spengono come luci al neon nel cervello quando dovrei invece cercare di pensare solo al qui ed ora, che già peraltro offre non pochi guai da gestire. Questi ed altri pensieri mi turbano, quando invece dovrei dire, ok tanto ormai siamo tutti in zona rossa. Siamo tutti nell’area di contagio a fare la quarantena, ognuno sigillato nel suo appartamento.

Quindi quello che dovrei fare, come sempre nella vita, è scommettere sulla mia forza, non sulla mia debolezza. Dovrei alimentare la forza, le risorse interiori: perciò oggi dopo aver tirato a lucido i pavimenti e impostato in qualche modo il pranzo, mi sono messa a fare un po’ più seriamente yoga. Ed è successa una grande magia, quella magia che me lo rendeva caro anche quando lo praticavo in gioventù: la scritta PANICO al neon mi si è spenta nel cervello, e finalmente ho iniziato a produrre altri pensieri, connessi con la situazione ma in qualche modo staccati. Quando ero giovane correvo dietro a false verità, cose inutili, situazioni che mi hanno solo fatto perdere tempo; mi sono rivista in questa affannata corsa verso l’inconsistenza di veri disvalori tipo l’essere magra, l’avere un fisico perfetto, l’avere una storia d’amore da favola, il lavoro di successo…cagate, sì, cagate di questo tenore. Adesso, in questa circostanza degna di una puntata di Black Mirror particolarmente angosciante, in questi giorni che stiamo vivendo così duri, riesco in quella mezzoretta-oretta a immergermi nel pozzo della mia forza e tirare fuori un secchio di qualcosa che mi permetta di ossigenare il cervello. Mentre facevo shavasana, quindi al rilassamento, mi sono fatta un enorme pianto consolatore, poi mi sono ricordata di quante volte in quello stesso momento di rilassamento dopo lezioni particolarmente intense, io ero in lacrime ed vari maestri che ho avuto nel tempo, senza preoccuparsi, né chiedermi la ragione di quelle lacrime, mi si avvicinavano e cercando di abbracciarmi – durante il rilassamento si è sdraiati, dunque tirandomi su un po’ il busto – mi sussurravano: lascia andare, lascia andare….ecco oggi è successo così, una parte di tristezza e di preoccupazione per la situazione che stiamo vivendo è sgorgata fuori, ha trovato una via di uscita, finalmente, lasciandomi estremamente più sollevata e lucida, in definitiva molto più forte.

Quindi ho capito che devo assolutamente trovare lo spazio quotidiano per dedicarmi a yoga, almeno finchè la quarantena dura, e durerà ancora parecchio, perché il mio cervello ha bisogno di trovare la sua forza per credere che un giorno tutto tornerà come prima.

Adesso (avevamo poi pranzato e lavato i piatti e fatte tutte quelle piccole cose che ormai sono i nostri riti quotidiani, tipo mangiare la frutta giocando al gioco dell’oca di Hello Kitty) la mia piccola polpetta nonché formidabile compagna di quarantena si è svegliata dal pisolino, andremo a fare merenda in cucina, poi porteremo giù il cane, poi penso che le proporrò di fare una crostata alla nutella insieme, da mangiare a colazione domani mattina -visto che domani ricomincia la guerra, pardon, il lavoro, un pezzo di crostata alla nutella ci starà tutto prima di scendere nella trincea degli sgravi fiscali a sostituto coniuge tutto spiegato via conference call con la cotoletta che sfrigola di sottofondo e la bambola di Elisa di Frozen da cercare as so lu ta men te su bi to perché forse l’ha mangiata il Gruffalo.

Per oggi è tutto, buona quarantena a tutti.

PS: il cane quattordicenne, mentre io ero sdraiata a fare shavasana – la posizione del morto, ovvero il rilassamento post ashtanga – si è alzato dalla sua cuccia ed è venuto lentamente ad annusarmi, (per vedere se ero ancora viva) e anche per consolarmi, permettendomi di accarezzare un po’ la sua calda pelliccetta, visto che piangevo come una fontana. E mi sono ricordata di quante volte in passato quando eravamo solo io e lui in casa, era lui l’insostituibile compagno delle mie quarantene mentali, visto che la polpettina oggi quattrenne non era ancora arrivata nelle nostre vite.

E lui faceva esattamente la stessa cosa, veniva a vedere come stavo quando ero in Shavasana e in certi casi anche a scuotermi con la zampetta mentre ero sdraiata a terra a rilassarmi.

Poi per consolare la mia pena, mi si stendeva a fianco, permettendomi di accarezzarlo un po’, come un grande caldo pelouche in carne ed ossa.

Caro, caro cagnone 14enne della mia vita!

Lo zibaldone della Madonna

Ho perso il conto dei giorni che sono passati dall’inizio del nuovo lockdown. In più ho già finito tutti i film su Netflix e Amazon Prime con Russel Crowe che fa lo sbirro (sbirro-torello con l’alone di sudore sotto l’ascella, sbirro innamorato di una Kim Basinger-copia vivente di Veronica Lake, sbirro de fero che lavora notte e giorno, la sigaretta sempre penzoloni all’angolo delle labbra…) Quindi ovvio che il mio cervello vaghi alla ricerca di cose belle a cui poter pensare. Una boccata di ossigeno in questi tempi complessi. E mi viene in mente lei, la mia adorata Madonna Ciccone.

Perciò ecco il mio personale micro-zibaldone in onore della Madonna. Queste righe non hanno alcuna pretesa di esaustività – non basterebbero 100 tesi di laurea a parlare di Madonna, analizzandone tutti gli aspetti analizzabili e raccontandone tutte le cose raccontabili.  Ma io, io che a 8 anni mi nascondevo nell’armadio con le cuffiette per ascoltarmi True Blue in santa pace – esatto, a 8 anni ero ancora normudente, i guai acustico-coclerari son venuti molto dopo – mentre voi forse giravate per casa cantando oh lady lady lady Oscarrrr/tutti fanno festa/ quando ci sei tuuu, ecco, io su Madonna ho proprio qualche cosa da dire.

Madonna è un po’ come una filosofia, o forse anche un po’ come un Picasso: in ogni caso, è una che va a periodi. Quindi come quando studiavo filosofia o anche Picasso, posso dire che il suo periodo favorito è sempre l’ultimo che studio.

Qui sopra per esempio la vediamo in una sua recente e oserei anche dire fichissima incarnazione, quella di simil-ventenne, col capello rosa confetto e il vestito darkettoso come una qualunque post adolescente che ciondola (ciondolava, in era pre-covid) in un qualsiasi centro commerciale di periferia. Una mano simpatica (non la mia) sullo sfondo ha photoshoppato il nome del posto in cui si trova, brandizzandolo col suo, iconico.  Come non amarla, anzi stramarla? Peccato che col lockdown anche solo l’idea di mantenere una chioma di questo colore sia per me impensabile, altrimenti avrei già mandato la foto di cui sopra alla Izia del mio cuore (la mia adorata coiffeuse), con sotto scritta una sola parola: PREPARATI!

  La Madonna degli albori, che si affaccia a noi pubblico adorante, è una Madonna spettinatissima, col makeup che un po’ cola e quasi sembra fatto in casa, con quelle poche risorse che abbiamo noi tutte comuni mortali. I vestiti sono sempre reinventati, adattati, usati con mentalità punk in un modo destrutturato e decontestualizzato. Esempio: il boxer in testa. Ma vogliamo parlare della fotogenia assoluta di poter risultare superfiga con un boxer in testa?Inarrivabile.

Madonna era già frutto di un progetto – voluto, elaborato, meglio, elucubrato dal capo assoluto di sé stessa: sé stessa in persona. A molti all’inizio sembrava una buzzurra ammmmeregana qualunque, una meteora che presto sarebbe scomparsa dai radar, ma in realtà era già solida in partenza, già non veniva affatto dal nulla, aveva una bella testa pensante – oltre che un fisico costruito col sudore: anche lì, come potrebbe benissimo fare una qualunque fra di noi, non nata fotomodella ma impegnata a venire incontro alla propria idea di sè al meglio. Quando diventa famosa, già frequenta da tempo artisti importanti, come Keith Haring, Basquiat (che fu anche, che ve lo dico a fare, suo fidanzato) e la Factory. Maripol, una designer d’avanguardia, ne curava il look degli esordi, anche se a dire di tutti quelli che l’hanno conosciuta quando era a New York come una semplice ballerina di fila from Bay City (una cittadina del Michigan), era già di suo un “personaggio”.

E quel modo di vestirsi elitario (perché è avanguardistica l’idea che ne è alla base) ma al tempo stesso proletario, è un colpo di genio assoluto, uno dei tanti tipici di lei, che mi hanno sempre ispirato. Si truccava e si vestiva come si truccavano e si vestivano le nostre sorelle maggiori in cameretta loro, quelle che erano adolescenti in quegli anni ‘80 in cui è esplosa, ma nulla era casuale, già era tutto frutto di un preciso percorso. Impara l’arte, mettila da parte e portala in forma di costume nelle case di tutti, anche, ma forse soprattutto (come si vedrà bene nelle evoluzioni che seguiranno) in quelle delle persone che campano con poche risorse, e si fanno coraggio, vivono, ridono, si pongono nel mondo cercando di reinventare tutti i giorni quel poco che in realtà hanno. Chapeau!

I video di Madonna tengono compagnia (pensateci su, eh, in questi giorni di lockdown!), tirano su il morale, sono colorati, ricchi di balletti, con vestiti fighissimi e plot mai banali. Come dei mini film dai contenuti spesso provocatori, entrano come pochi nel cervello. Un senso che li accomuna tutti è quello di essere girati in mezzo alle persone, per e con le persone. Video come La Isla Bonita (di Mary Lambert, una regista che negli anni 90 farà parecchi horror, tipo “Pet Semetery”, per dirne uno), in cui si vede la mia idola  assoluta con un costume da ballerina di flamenco ballare nel patio di una periferia alquanto sgarrupata, in mezzo a persone ispaniche (minoranza che nessun artista prima della Madonna aveva osato rappresentare in un video patinato per Mtv). Oppure pensiamo a Hang Up, dove se n’ va nella sua discoteca con le amiche fidate, tutte molto affamate, come una vera strega che se ne frega, a ballare e sudare come una indemoniata in mezzo alla gggggente vera. Idem in Ray of Light, con la canottiera a coste da camionista – ricordo bene che andai a Parigi l’estate di quell’anno in cui uscì Ray of Light, e tutte, tutte, tutte le fanciulle dai 20 ai 50 anni portavano quella sua schioma bionda lunga e boccolosa e addosso completini di jeans e canotta bianca a costine. Io semplicemente non so quale altro brand al mondo può dire di aver realizzato un look così estremamente povero ed insieme iconico, replicabile da tutte a volontà.

Nel suo magico mescolare alto e basso, filosofia e terra-a-terra, porta alla ribalta come niente temi enormi, ed enormemente dibattuti .

Prendi Vogue (lavoro di quel David Fincher che anni dopo realizzerà l’horrorone-thrillerone Seven.)

 Ad un primo livello di analisi puramente visuale troviamo un mix barocco e ridondante che sembra mettere insieme alla rinfusa Tamara de Lempicka, “L’angelo azzurro”, l’estetica delle ballroom, Horst P.Horst  – tutti nomi, temi e atmosfere frullate in un collage pazzesco (e a ben guardare contiene anche già  prodromi del suo lavoro successivo, Erotica) A quasi 30 anni di distanza mi sono imbattuta nella serie Pose – che non smetto di consigliare a tutti gli amici, parenti, conoscenti: ragazzi, dai, guardate sto Pose, è stu pen da!-e mi sono arrivati,  finalmente, molti altri livelli di lettura di Vogue. Per esempio, uno di questi – osservando l ‘impatto che ha avuto l’uscita di questa canzone, così come rappresentato in Pose – è l’aver finalmente messo il megafono, per la prima volta nella storia della cultura pop occidentale di massa, di fronte alla bocca di quelli che fino a quel momento erano percepiti dall’opinione pubblica come gli ultimi degli ultimi: le persone transessuali. In Pose si vede bene cosa significò per le House e per la cultura della Ballroom l’uscita di questa canzone e questo video. Ecco che all’improvviso le persone transessuali erano finalmente protagoniste, alla ribalta internazionale con la loro estetica e filosofia di vita. Molti detrattori (anche appartenenti al mondo delle House, quindi gente che sa quel che dice in merito, ed io ne ho rispetto) hanno parlato di appropriazione culturale: beh,secondo me si è trattato senza dubbio di un progetto pensato per generare un guadagno che andasse a finire nelle tasche della Madonna, che balla e canta nel video e ha fatto un prodotto ispirato ad una determinata cultura urbana. Ok. Ma ma ma…c’è un ma: nessun artista che mi venga in mente ha messo la faccia e il nome (per quanto ammettiamo pure sia stato per motivi di marketing) di fronte a questioni sociali così forti e “scomode” in un modo così potente.

 Stesso discorso, anni prima, per le croci incendiate sullo sfondo di Like a prayer : io non ho mai sentito di nessuna artista americana con le palle quadre di sbattere in faccia ai suoi concittadini, tra le righe ma non troppo, l’orrore del Klan attraverso quelle immagini.…e le punture di silicone in faccia di Hollywood – in ageing we putroppo! trust.….e la tuta di latex di Human Nature – parliamo pubblicamente di sessualità? O qualcuno ne è disturbato?…e i femminicidi (molto prima che qualcuno li chiamasse con questo nome, individuandoli ahimè come aberrante fenomeno sociale), le uccisioni di quelle “donne che fumano troppe sigarette”, che vogliono vivere libere e per questo vengono punite da una società che non le vuole, come in Bad girl.

Potrei andare avanti con questo elenco ancora per un centinaio di cartelle fitte fitte, (parliamo di In bed with Madonna, in cui per la prima volta una artista occidentale si filma in mezzo a ballerini apertamente gay, presentandone all’opinione pubblica una visione finalmente normale, come persone assolutamente ordinarie – ce ne fosse bisogno…eh sì, però la verità è purtroppo che ce n’era proprio un gran bisogno, soprattutto all’epoca. Film assolutamente innovativo, e non solo per questo motivo, che ha rotto parecchi schemi). 

Ma questo è uno zibaldone della Madonna, permettetemi di andare a ruota libera: vi dirò invece che la Madonna mi ha parlato, eh sì, e pure più di una volta, ispirandomi parecchio per molte cose, anche della mia vita privata. Ad un certo punto mi ha rivelato anche un segreto molto importante per me: non troverai mai, o sarà molto difficile che questo accada, un uomo all’altezza delle tue spalle, della tua forza, del tuo carisma.

E, Madonna docet, la novità sai quale è?? …anche chissene!!

Non posso proprio dire che Madonna abbia avuto quella fortuna pazzesca nella sua vita sentimentale, anzi, anche in questo campo è stata del tutto una di noi, mollate, separate, mal marià (come si dice in piemontese, maritate male), single mom più o meno di ritorno. Insomma, una tra mille, anche lì. Una vita sentimentale spericolata il giusto, al punto da farmi davvero una grande simpatia umana (penso per esempio alla love story con Tupac, in cui lui l’ha piantata in asso perché troppo diversa dal tipo di donna che il suo pubblico si aspettava che avrebbe frequentato – e le cronache riportano che lei, la Divina Madonna abbia sofferto, sì, proprio come potrei soffrire io quando col pirla di turno si arrriva alla fatidica frase non sei tu, sono io)

 Poi ha fatto una figlia col personal trainer, e lì al parto fisico è seguito quello metaforico del suo album migliore: Ray of light, un disco così avanti che ancora dobbiamo capire bene da dove arriva. Poi ha avuto un altra creatura con un regista inglese (uno rimasto a vita giovane promessa del cinema inglese);  lei in quel periodo lì girava il video di Music stranamente coperta da un cappottone bianco lungo fino ai piedi, a dissimulare, si scoprì poi, la pancia dei primi mesi della sua seconda gravidanza. Video peraltro girato in uno strip club made in USA, col feat di AliG nella sua incarnazione di rapper. Madonna però nella realtà viveva un’altra delle sue 118 vite, in una nuova Reinvention (nome del tour che è al centro del suo docu-film dell’epoca: I’m going to tell you a secret), si era trasferita in Inghilterra, giocava a fare la lady col cottage, gestiva un pub in campagna col maritozzo regista british di sangue semi-blu. Poi alla rottura, è tornata a vivere in America,ed ha adottato 4 bambini in un paese africano (con la solita eco di critiche filistee, sul come ed il perché lei donna di potere americana multimilionaria e con una visio muscolare bla bla bla avesse fatto questo tipo di scelta) . In effetti, aveva annunciato urbi ed orbi la sua voglia matta di diventare mamma nel video di Secret, che è tutto un ritratto di una famiglia via l’altra: e la maternità è risultata essere un momento centrale oltre che della vita anche della poiesi (dai, quanto tempo era che non leggevate questa parola?) di Madonna.  Ne ha arricchito e rigenerato indiscutibilmente la creatività e l’immaginario proposto al pubblico.

C’è stato un periodo in cui Madonna ha trasferito armi e bagagli e famiglia a Lisbona, per aiutare la carriera di calciatore del figlio David. Pensate, sul piatto, come si legge in una intervista di quegli anni a Vogue Italia, c’era anche l’ipotesi di Torino per un possibile trasferimento, perché l’obiettivo era appunto seguire la carriera calcistica del figlio David Banda, e la scelta poteva essere quella della primavera della Juventus, qui, oppure il vivaio del Benfica, per cui poi si è deciso. Ma sapete che brivido che ho avuto? Me la sono immaginata al bar La Stampa in coda per un marocchino con nutella mentre io scendo in pausa caffè. Che bomba sarebbe stata, incontrarla per caso nel camerino di Zara o all’Apple Store! (ma poi Madonna andrà da Zara o all’Apple Store? Forse nemmeno al La Stampa).

In questa stessa intervista si era autodefinita soccer mom, intendendo con questo di essere una di quelle mamme che accompagnano i figli agli allenamenti di calcio e fanno il tifo come diavole sugli spalti…dai David, stagli sotto, PORCAMAD….ah no, mi sa che neppure lei nomina il suo brand invano.

Insomma, non so se queste righe stupidine vi hanno fatto capire quanto io la ami, quanto mi dia la carica questa persona, quanto pensi per altri millemila motivi che sarebbe davvero lunghissimo spiegare che è una colonna portante della cultura pop occidentale a cavallo tra il XX e il XXI secolo. Madonna mi ha parlato (e credo non solo a me), con le sue canzoni a ben guardare ben poco leggere, dicendomi che posso essere una donna forte, posso scegliere gli uomini a cui mi voglio accompagnare, innamorarmi e disamorarmi, avere figli e trovare nella maternità l’ispirazione più alta, la me stessa migliore della mia vita. Posso andare oltre i miei limiti, essere politica con la mia sola esistenza, possono piacermi gli stiletti o le clark o le donne o gli uomini o tutti e due insieme. Madonna mi ha aiutata a comprendere come nessun’altra quello che volevo essere: una donna libera e col potere di cambiare il mio destino, grazie alla mia sola forza di volontà. Nel business personale della sua musica sono veicolati fortissimi messaggi politici, destinati a restare tra noi a lungo, molto a lungo. Grande, grandissima Madonnina del mio cuore.

Domenica DPCM

mia figlia alle prese con i suoi primi scarabocchi con simil lettere mescolate. Casualmente, in basso a destra, si legge la parola NOIA

Oggi è domenica, cambia l’ora (guadagniamo un’ora al giorno di questi splendidi, imperdibili giorni di questo splendido, imperdibile 2020). Mi sveglio seguendo il mio bioritmo, scivolo via dal lettone dove dorme vicino a me, arrotolata nelle coperte, la mia scimmietta quattrenne, vado in cucina e mi faccio il caffè. Accendo il canale 48, cioè Rai News24, ormai fissa in console le volte che nell’arco della giornata si accende il grande schermo della cucina. Notizie scorrono sullo schermo, i numeri spaventosi dei contagi sembrano crescere, i malati sono ormai un esercito di milioni di topi, guidati da un invisibile, cattivissimo pifferaio magico (di recente, tra l’altro, ho letto insieme a mia figlia la storia “vera”, trascritta dai Fratelli Grimm: si chiama “Il pifferaio di Hamelin” e credetemi, è davvero spaventosa! da rizzare tutti i capelli in testa. Come potrebbe essere un corto di Tim Burton sceneggiato da David Lynch, per capirsi).

Giro il cucchiaino nel caffè, stringo in un abbraccio il nostro vecchio Spud, che mi ha raggiunto sul divano, sento nelle narici il suo odore forte di vecchio cinghiale travestito da cane e FIUUUU, dentro di me, una parte di retropensiero tira un gran sospiro: quindi quella tossetta della minchia che mi porto dietro da un paio di giorni non sarà niente, se sento l’odorame di Spud. Quindi non c’entra la mia raucedine con questo maledetto maledetto virus. Speriamo! Chissà se, chissà ancora per quanto riuscirò a dribblare questa malattia. Persone contagiate inizio a conoscerne parecchie, è come un cerchio che si stringe intorno a me, intorno a noi, giorno dopo giorno, sempre un po’più stretto. Ascolto il resoconto di contagi ormai a 4 zeri, intere regioni massacrate da una matematica che sembra uscita da Black Mirror, proclami sempre più minacciosi di serrate a effetto domino, poi partono filmati di tafferugli violenti nelle piazze italiane – fino a un mese fa a quanto pare eravamo quelli bravi e disciplinati, cosa è successo intanto? Mi sono persa qualcosa?

Nel mentre, mia figlia si alza, fa colazione, sbriciolando biscotti a forma di orsetto. Li abbiamo impastati, tagliati e cotti insieme un pomeriggio della settimana appena passata, uno dei tanti trascorsi in casa, visto che non è stata bene di stomaco ed il buonsenso, in questi tempi grami, mi ha consigliato di non mandarla a scuola, per poter osservare dove sarebbe andato a parare questo malessere. Ma non è successo più nulla, a parte qualche vomitatina in technicolor e qualche cacchina un po’ bruttina. Il pediatra (ovviamente privato) che è venuto a visitarla era certo che non fosse nemmeno il caso di fare il tampone. Verso fine settimana sono riuscita, per una serie di combinazioni fortunate, a rintracciare telefonicamente financo il pediatra della ASL e lui mi ha spiegato bene come funzionano le cose: tampone solo ai conclamati, per tutti gli altri si va di quarantena fiduciaria. Abbiamo fatto i conti insieme, calendario alla mano: oggi sarebbe il decimo giorno di isolamento per mia figlia e per me, quindi da domani, che è lunedì, si può tornare a scuola.

Si torna a scuola, quindi, EVVIVA!!!!si torna in quel luogo che mia figlia ama con tutta sé stessa e senza il quale da’ letteralmente i numeri, chiusa in casa. Si torna alle nostre corse pazze per arrivare in orario, centrando come equilibriste a 100 all’ora la finestra di 15-minuti-15 concessa per l’ingresso dei bimbi. Io lotto come una tigre con i minuti, perchè devo prendere servizio a lavoro – lavoro in smart working, ma comunque molto under his eyes. E causa covid, niente pre-scuola e niente post scuola. Orari rigidamente cuciti addosso alla famiglia del Mulino, dove il babbo si alza col canto del gallo e va in miniera a spaccare pietre fischiettando, mentre la mamma, angelo del focolare, sta a casa e ha tutto il tempo di accompagnare il/la/i/le bimb* a scuola anche alle 8.45 del mattino, tanto mica ha nessuna cartolina da timbrare! Mica ha il fiato del capo e quello di molti colleghi malefici sul collo! Ma manco per sogno, non sa nemmeno cosa voglia dire, il fiato del capo sul collo e i colleghi malefici. Quindi, ogni mattina la mia scimmietta ed io indossiamo i nostri costumi da supereroi e corriamo più veloci della luce. E sono ancora fortunata, fortunatissima! Se facessi la parrucchiera, la barista, se avessi un ristorante, dall’oggi al domani potrei essere costretta a chiudere bottega. E addio becchime per me e per la mia famiglia. Quindi mi bacio i gomiti anzichenò, ed imparo la difficile arte del teletrasporto e del bruciare il semaforo a 70 all’ora. E che Dio me la mandi sempre buona.

Intanto mia figlia mi racconta i suoi pensieri teneri e colorati, pieni di unicorni, palloncini e glitter, ci vestiamo alla bell’e meglio (giacconi sopra pantaloni del pigiama, tanto è domenica) e scendiamo per la mezzoretta di gloria dedicata al nostro cagnone, in giro a comandare (si fa per dire) per il quartiere. L’omino che in genere è sotto casa, all’angolo, a vendere i quotidiani la domenica mattina oggi non c’è, peccato, in compenso scendiamo cariche di spazzatura divisa per: carta, organico e generico. La plastica un altro giorno, che ancora non ho metabolizzato quale sia. Il cane fa i suoi bisognini, si torna a casa, pronti ad una mattinata di totale noia, complice il cielo grigio e la temperatura che rendono poco piacevole l’idea di stare fuori casa, ma anche e soprattutto lui, lo spadone che ci oscilla sopra alla testa: il DPCM. Per il momento, è solo una accorata raccomandazione di STARE A CASA ed uscire solo lo stretto indispensabile. A metà giornata si arriva a definire quello stretto indispensabile come l’andare a lavoro e a scuola: no palestre, piscine e tutti i momenti del tempo libero che potrebbero prevedere aggregazione o condivisione di spazi chiusi. Penso alla borsina abbandonata con dentro le cose di danza di mia figlia, le mini mezze punte, il mini cache-coeur rosa confetto. Avevo già pensato alla foto da farle per immortalare il momento in cui le avrebbe messe, a lezione. L’avevo iscritta a settembre, come un atto di fiducia nel futuro, nella stessa scuola di danza dove a vent’anni frequentavo anche io. Era emozionante per me accompagnarla, mi tornavano in mente milionate di cose sepolte dentro di me, episodi, visi,voci…Peccato, riprenderemo chissà quando, forse la prossima primavera.

 Per fare qualcosa di diverso, in questa domenica molle e grigia, ho deciso di ordinare due hamburger. Senza salse e senza patatine, solo pane e polpetta cotta sulla piastra, chè il reflusso gastrico di mia figlia è una brutta bestia. Carico un ordine per la nostra hamburgeria preferita: passano 5 minuti nella scelta di un menù che ci piaccia – poi io di nascosto lo alleggerisco di tutto quello che potrebbe essere indigesto (patatine, salse, cose eccessivamente grasse) e clicco OK. E 5 minuti, forse 10, sono andati, della mattinata. Mia figlia nel mentre lancia la palla al vecchietto peloso, inizia dieci disegni, attacca vestitini improbabili in un libriccino della Usborne della serie “Vesti le bamboline” ( Edizioni Usborne, santi subito!!! Grazie per le ore che mia figlia ha passato in vostra compagnia!!!) Poi guarda un corto su Disney Channel (Youtube bandito perché i filmati per bambini lì non sono veramente per bambini, sono per decerebrati), suona e risuona, anche con dei micro arrangiamenti differenti, Twinkle Twinkle Little Star, che è il primo pezzo che la sua insegnante di pianoforte le ha insegnato – ciao Elena! Non vediamo l’ora di rivederti!! Mentre io rifaccio il letto, rassetto qua e là, stiro (sì, stiro, io stiro, perché amo vedermi addosso vestiti senza una piega e amo vederli ben messi anche addosso alla pupina). Controllo il pezzo che ho postato sul mio blog ieri sera, sarà troppo carico? Ci saranno troppe frasi fatte, modi di dire vecchi come la Madonna che appesantiscono il tutto? Intanto mia figlia continua a cambiare all’incirca una attività ogni 20 minuti, avendo 4 anni ed essendo abituata a stare a scuola, guidata nelle attività dalle maestre. L’anno scorso, nell’ultimo anno normale della nostra vita, entrava alla scuola materna alle 7.50 di mattina ed usciva alle 17.30, soddisfattissima.

Eh sì, l’anno scorso. L’ultimo anno normale della nostra vita. Ah, l’ho già detto?

L’anno scorso il fine settimana avevamo così tante cose da fare che dovevamo scegliere. Magari mia figlia passava il sabato in compagnia dei nonni – che ancora si potevano frequentare senza timori e loro, pure, erano leggermente più in forma – e la domenica si andava alla festa di compleanno di qualche compagnetto di scuola. La sera si mangiava una pizza sotto casa con qualche amica. Oppure mi ricordo il sabato mattina al cinema, alle proiezioni per bambini. L’ultimo sabato, ignare di tutto, con una amica e la sua bimba, a guardare “Shaun la pecora” in mezzo ad una platea urlante, starnutente e tossente di bimbi e genitori, ovviamente uno vicino all’altro, senza alcun timore del mostro che avrebbe travolto il nostro modo di vivere da lì a pochi giorni. Mi ricordo che ci eravamo messe d’accordo, con questa amica, di rivederci la domenica successiva, che era l’8 marzo, giorno che invece sarebbe poi stato il primo di lockdown nazionale.

Dopo pranzo, scendiamo ai giardinetti a giocare: mia figlia è fuori di sé dalla gioia nonostante il grigiume metropolitano da polvere sottile in cui ci immergiamo uscendo. Lei spera da matti di trovare qualche bimbo con cui giocare, anzi ne è sicura, invece i giardinetti sono deserti, visto che sono le 14.30 di pomeriggio di una domenica bigia e fredda. Dopo un po’ si manifestano una mamma e una bimba, le bambine giocano ad acchiapparella, mia figlia grida di felicità. Poi all’altra manca il fiato, siamo tutti un po’ straniti, la mamma mi guarda e mi dice: “Che strana domenica, nessuno in giro, sa già di lockdown”. Già, già, sa già di lockdown. Il lockdown quando arriva arriva. Lo senti arrivare, come una volta sentivi arrivare il Natale. Non ce lo diciamo tra di noi, ma secondo me pensiamo tutte e due contemporaneamente a RaiNews 24, l’oracolo di Delfi de noantri, che è lì che ci aspetta, con notizie sempre più gravi, un futuro che sembra uscire da una sceneggiatura di Blade Runner misto day after batteriologico. Noi abbiamo visto cose che voi umani…eh sì.

Intanto, la domenica DPCM ci scivola lentamente tra le dita, ci salutiamo con la mamma e la bimba, è stato bello scambiare delle parole al parchetto, e chissà…

…ma poi, saranno state negative? Ok che avevamo tutte la mascherina , ok che eravamo all’aperto, ma…chissà…

sarà stata lì per aver violato una quarantena fiduciaria?

sarà andata alla festa di compleanno, l’altra settimana, del cugino positivo?

sarà asintomatica?

Le ombre della sera lambiscono il pomeriggio appiccicoso e triste, ce ne torniamo a casa, torniamo alla nostra bolla, alle nostre coccole, alle nostre piccole attività ripetitive che, però, nel loro essere sempre uguali ci stanno aiutando a non scivolare nella pazzia. Ciao, ciao, alla prossima domenica DPCM.

Libri per bimbi & single moms

“IL GRANDE E GROSSO LIBRO DELLE FAMIGLIE” di Mary Hoffmann – edizione Lo Stampatello

Questo libro offre una carrellata, illustrata con disegni molto simpatici, su tantissime tipologie di famiglia esistenti: famiglie con babbo, mamma, bimbi, cane e anche gatto, famiglie con babbo solo, mamma sola, bimb* e animale da compagnia a scelta, famiglie grandissime, famiglie piccolissime, famiglie pettinate, famiglie spettinate…di ciascuna spiega con grande ironia quelle che potrebbero essere un po’ le caratteristiche, per finire dicendo che, infondo, il cuore del discorso sulla famiglia è, al di là di tutte le variabili, essere un luogo-non luogo in cui ci si vuole bene.  Il libro è utile anche perché presenta una carrellata di feste religiose di varie culture diverse dalla nostra – quella di mia figlia e mia, intendo, visto che siamo italiane e cattoliche (io solo sulla carta, lei chissà, ce lo dirà il futuro). Trovo molto carino aver potuto presentare a mia figlia feste e usanze di cui altrimenti non verrebbe immediato parlare, come Bar e Bat Mitzva’ e il Capodanno Cinese (che, per un periodo, quando lo leggevamo tutte le sere, lei entusiasticamente diceva essere la sua “festa preferita” 😊).

“IL LIBRO DELLE FAMIGLIE SPECIALI” di Thais Vanderheyden – edizione Clavis

Il messaggio di fondo contenuto in questo libro è lo stesso del “Grande e grosso libro della famiglia” cioè che esistono famiglie di tutti i tipi, forme e colori, e “famiglia” è là dove c’è amore, fiducia, legame reciproco. Qua è affrontato in modo un po’ più didascalico, attraverso personaggi antropomorfi, con un filino meno ironia. Il protagonista è un millepiedi postino che abita nel “Condominio Felice” e deve consegnare a tutti i personaggi del libro una lettera misteriosa. Ben illustrato, coloratissimo e con personaggi accattivanti, contiene anche un giochino per il/la bimb* a cui si sta leggendo (non vi dico quale, se no vi spoilero tutto e non va bene). Unica nota leggermente stonata: nel presentare la famigliola monogenitoriale con single mom il testo dice che il papà non c’è perché è “partito per un lungo viaggio”, cazzabubbola che io vi sconsiglio caldamente di rifilare al/alla  vostr* pup*, in quanto, a meno che le cose non stiano veramente così, si creerebbe l’inutile e dolorosa aspettativa di un impossibile ritorno; oltre al fatto che dire cazzabubbole ai bambini, si sa, non è mai bene, soprattutto su cose così importanti. Per il resto, ho iniziato a leggere “Il libro delle famiglie speciali” a mia figlia verso i 2 anni, è davvero adattissimo ai piccini, perché molto colorato e giocoso.

NOI DUE” – di Paloma Valdivia – edizione Fatatrac

Ho scelto questo libro in libreria d’impulso, attratta dalla bellissima copertina, e avendo solo io dato una sfogliata veloce alle illustrazioni magnifiche che contiene. Solo dopo, leggendolo a mia figlia, ho scoperto che non affronta direttamente il tema della famiglia monogenitoriale (come immaginavo, sbagliando, dopo averlo giudicato solo dalla copertina e dal titolo), ma si focalizza, con disegni essenziali e poetici, su due concetti mooooolto più complessi: da una parte il crescere, il cambiare e lo “scegliere quello che vuole essere” del figlio, l’abbandonare il nido e le coccole materne per poi tornare come vuole essere, o meglio come ha scoperto di essere. Dall’altra c’è il “lasciare andare il suo bambino nel mondo” della mamma, pur mantenendo questo legame indissolubile al di là di ogni lontananza. I protagonisti sono tenerissimi, i dialoghi complessi ma insieme estremamente scarni e “terra-terra”. Questo è un libro che lascia molto spazio all’immaginazione, all’interpretazione, alle domande. Noi lo amiamo molto.

“UNA MAMMA E BASTA” – di Francesca Pardi e Ursula Bucher – edizione Lo Stampatello

La prima volta che abbiamo letto insieme questo adorabile libriccino, ammetto di aver versato di nascosto qualche furtiva lacrima, essendomi commossa. Il plot: un giorno manca la maestra titolare a scuola e la supplente arrivata assegna un compito alla classe della bambina Camilla. Questo compito consiste nel disegnare ogni bambino il proprio papà. Camilla però il suo non l’ha mai conosciuto. A quel punto, nel mondo che vorrei io questa insegnante, resasi conto impallidendo della mina mortale che si è fatta – la bambina le dice serenamente:” io non ho un papà” – si ritira in un dignitoso silenzio scusandosi in 14 lingue vive più un paio morte (greco e aramaico, perché no). Invece, nel libro, insiste eh! E, con la sensibilità dell’elefante nella cristalliera, addirittura rilancia, proponendo a Camilla di disegnare “il papà che vorrebbe avere”. Ma Camilla ribalta con agilità questa prospettiva “Family day” style, in base alla quale per forza tu povera creatura se non hai un genitore devi sentirne la mancanza. Bambina-adulta 1 a 0.  Libro bellissimo, finale di cui non vi dico niente, se non di preparare i fazzoletti.

“PICCOLO UOVO” – di Altan – edizione Lo Stampatello

Dulcis in fundo ho lasciato questo classico contemporaneo della letteratura per l’infanzia sulla famiglia genderless & – oserei aggiungere io – “love is the answer”.  Illustrato da Altan: mia figlia ed io già siamo da sempre delle super fan della Pimpa, di Armando, del Caimano Cacà e di tutti gli altri personaggi usciti dalla fantasia di questo grande grande autore. Che dire, “Piccolo Uovo” si presenta da solo: è la storia di un ovetto che sta per schiudersi che si domanda in che tipo di famiglia si troverà. Segue una carrellata di nuclei famigliari (tutti antropomorfi): monogenitoriali, omogenitoriali, in cui il papà e la mamma appartengono a razze diverse…. con poche battute per ogni disegno si parla ai bambini di concetti enormi e (per gli adulti) assai difficili. Io ho iniziato a leggerlo alla mia pupa quando aveva circa 2 anni, è davvero adatto come primissimo approccio a queste tematiche. I disegni sono accattivanti e le parole usate semplici ed essenziali. Nel 2012 ha vinto il premio Andersen come libro per bimbi dell’anno e si capisce benissimo perché.

Io consiglio questa manciata di libri perché genereranno delle conversazioni interessanti tra voi e i vostri bimbi, anche se magari all’inizio sembrerà che non siano particolarmente recettivi o non comprendano del tutto magari tutte le parole o le situazioni che presentano. Presto vi renderete conto di quanto vi stanno tornando utili per intavolare nel modo più neutro possibile argomenti delicati e che possono essere fonte di complessi, tabù, giudizi sociali e, in definitiva, sofferenza. Il libro è di per sé una scorciatoia verso molte cose, perché  è più facile parlare di temi anche “pesanti” attraverso una storia raccontata ed illustrata. L’ho letto in un libro o l’ha detto quel libro sono frasi che, secondo me, in situazioni scomode – la nostra, in cui viviamo in una famiglia monogenitoriale nella società bigotta in cui siamo immersi, indubbiamente lo è – hanno aiutato molte molte persone a non farsi troppi problemi inutili e a sviluppare “pensieri positivi” anche verso circostanze complesse della propria vita.

FENOMENOLOGIA DI STRONZY

Oggi ho pensato di farti un grande regalo: presentarti lui/lei, sì, il/ la collega Stronz* – che da qua in poi vorrei chiamare Stronzy: questo neutro è d’obbligo, in quanto non saprai mai in che forma e genere ti si parerà davanti, nella vita, il /la Stronzy Dur*e Pur*, il/la Very Stronzy.

Però diciamocelo, non sono proprio io a presentartel*: tu lo/la conosci sicuramente già! Avoja!

Stronzy è quel/quella tua vicino/a di scrivania presente sempre, in varie forme, entità ed incarnazioni, in tutti gli uffici: più che di una persona, possiamo nel suo caso ben parlare di Categoria dello Spirito.

Ti guarda e ti sorride, ma al solo scopo di farti vedere bene bene bene i canini – come tra primati nella savana, o anche come in quella meravigliosa scena di 2001 Odissea nello Spazio, in cui le scimmie si fronteggiano brandendo femori. Del resto, il problema di base è che Stronzy è rimast* ferm* mentalmente lì, la sua filosofia di vita lavorativa si può riassumere in: ciascuno per sé e Dio contro tutti. E soprattutto, nella sua fantasia, contro di te. Ma poi, perché?

Perché di te ha una paura fottuta e se tu ti avvicini, anche solo per sbaglio, ad una qualunque pozza di acqua potabile (= a qualunque lavoro/incarico ti venga assegnato), come nella scena del filmone di Kubrick ti volerà addosso (rigorosamente in segreto e di nascosto dallo sguardo di tutti) per suonartele di santa ragione. (peraltro, tranquilla: lui/lei non ha mai visto 2001 Odissea nello Spazio, ma neppure mai sentito nominare Stanley Kubrick. Forse, al più, penserebbe, sentendo questa parola, a quel famoso cubo colorato).

Conosci anche tu Stronzy, sì, eccome! ha la dote innata di poter parlare con voce stentorea in riunione, sopra di te, ben sopra, per principio, e per interi quarti d’ora, affermando peraltro nei suoi interventi il nulla assoluto, ma un nulla assoluto di qualità particolare, infiocchettato da inarrivabili quanto vuoti inglesismi e tecnicismi, e col sotteso che lui/lei, a differenza di te, ha l’orecchio del/della/ dei cap*. Stronzy sa come diffondere attorno a sè il timore di contraddirlo/la, perché quello che ti fa capire, tra una emerita boiata e l’altra che escono no stop dalla sua bocca, è che se osi dire qualcosa di diverso dalla sua vulgata, pur in modo pacato, ragionevole e documentato, vai contro i/le vostri comuni superiori gerarchici. Quindi, non solo tu, ma tutti in ufficio ne sarete intimoriti.

 Stronzy è poco intelligente e per niente colto/a, ma ha un istinto della Madonna per capire all’istante dove butta il fumo. E’ furbissim* in quanto i suoi segreti complessi di inferiorità, nascosti sotto tonnellate di spavalderia, l’hanno spint* a crescere a pane e tattiche per i migliori colpi sotto la cintura. Spesso, se donna,  nutre pure un malsano senso di rivalsa nei tuoi, sì, proprio nei tuoi confronti –  il principale oggetto d’invidia, è, believe it or not, quella che io, per quanto mi riguarda, percepisco come la mia difficoltà più grande, cioè la mia condizione di essere single mom.

Ma nella sua mente xxx (segue aggettivo dispregiativo a caso, fai tu, ti prego), il mio essere madre nubile è più o meno tutto qua:

beh, ma almeno tua figlia te la tiri su come vuoi tu, e a casa non hai nessuno con cui litigare!

…e neppure suoceri!

…e amici d’infanzia poco simpatici del marito/moglie da invitare sempre a cresime/ battesimi/feste di famiglia!

…e tutte quelle inevitabili rotture di coglioni che probabilmente derivano dall’essere parte di una famiglia del Mulino.

Tu, però, che sei mamma single, vivi una situazione di questo tipo (per dire solo 3 cose a caso che mi vengono in mente):

  • hai un solo stipendio,
  • sei regolarmente odiata a morte da tutti i tuoi capiufficio per i permessi che sei costretta a chiedere a ciclo continuo, non avendo un cazzo di nessuno (tranne le tate, che però vanno e vengono, come le Nuvole di De Andrè), che ti aiuti a gestire la tua faticosissima quotidianità
  • poi magari rispondi anche come niente a domande facili e leggere, tipo “ dove è papà? perchè non vive con noi?”. Beeeeello! Una vita un filino ma proprio un filino impegnativa.

…Ma Stronzy è così lontan* da qualsivoglia forma di empatia, che ai suoi occhi è palese come tu viva in un paradiso di libertà assoluta, autodeterminazione a mille e nottate pazze a ballare sul cubo. Quindi, giù di invidia brutale. 

Del resto, Stronzy è sposatissim*, o comunque è in coppia e pure da molto tempo; la verità però è che la famiglia gli/le fa venire l’orticaria, ma siccome di base è un/una bigott* conformista, non ammetterà mai che ne ha le palle piene, manco con sé stess*. Lui/lei vorrebbe essere libbbbbber*, ma ormai non può più – chè per separarsi o sottrarsi ad una situazione famigliare in cui non ci si sente a proprio agio occorre molto coraggio, peculiarità caratteriale che a Stronzy è proprio del tutto aliena.

Ma attenzione: questa situazione, che potrebbe essere causa per chiunque di dolore esistenziale, è il vero asso nella manica di Stronzy, che, infatti, riesce mirabilmente a smarcarsi dalle questioni famigliari, e ad essere concentrat* solo a cercare di spaccare culi sul lavoro – quella è tutta la sua vita!Grazie alla totale assenza di un qualunque altro reale pensiero, Stronzy riesce a essere veramente spietato/a.

Stronzy cambia le regole alla velocità del suono, anzi, proprio non ne ha, ti dice con fumosi arzigogolii sintattici che in sostanza è impossibile regolamentare ogni aspetto del lavoro, eh! Sei tu la rigida, sei tu la sospettosa: “è un problema tuo” è uno dei suoi refrain preferiti – invece la realtà è che aborre ogni regola fondamentalmente perché sa bene che, se ci fossero delle norme chiare, tutta la sua carriera andrebbe (scusa il francesismo) a farsi strafottere, visto che è  per il 99% costruita sul far inseguire – lavorativamente parlando- a tutti quelli che hanno la disgrazia di incrociarl* un eterno gatto di  Schrödinger.

In tangenziale. Di notte. Con la nebbia.

Quindi mente sempre senza ritegno e afferma come niente una cosa per l’altra, a seconda del suo interlocutore. Questa roba all’inizio ti disorienterà, perché troverai sconcertante la sua faccia di super gomma nell’affermare senza remora alcuna tutto e il contrario di tutto nel giro di pochi minuti. Del resto, a differenza di te, che sei una ahimè onesta e coerente, Stronzy fa della spregiudicatezza la sua Weltanschauung: si guarda bene dall’avere niente altro per il cervello che come superare a sinistra i colleghi, con ogni mezzo, e te, proprio te in particolare. Sì, ma perché, perchè?

Te l’ho già detto!

 tu sei libbbbbbera con tua figlia, non hai compagn* di vita a cui magari puzzano i piedi tutte le notti vicin* nel letto, tu sei libbbbbera di iscrivere tua figlia a pattinaggio o danza o istrumpa, o magari tutte queste cose insieme e questa libbbbbertà immaginaria fa sì che tu appaia a Stronzy sempre sul pezzo e mortalmente invidiabile, nonostante tutta la tua vera fatica quotidiana. Quindi anche sul lavoro ti percepisce (pur odiandoti a morte and beyond) come brillante. Tu, per il solo fatto di esistere, sei un pericolosissimo cane sul suo stesso osso. Passerà la giornata a fare poco del suo lavoro, ma tutto o quasi del tuo. Se non riesce a farlo, sicuramente lo controllerà minuziosamente, perché tanto lui/lei è tutt* lì, lui/lei ha eccome l’energia per farti il culo! ma diciamolo pure, anche beat* lui/lei, che riesce a non avere niente altro da fare e da pensare!

Tu in genere hai, se va proprio bene, 4 ore di sonno sulle spalle; ti dibatti tra i tuoi eterni problemi di salute, che, passando il tempo, diventano sempre più cazzuti e impegnativi da sostenere: gli impianti cocleari che si spaccano regolarmente il sabato mattina, magari prima di un bel ponte lungo (o del lockdown! Io, sappiatelo, ho affrontato più di metà lockdown con un solo impianto cocleare funzionante! quindi  di fatto con un solo orecchio! Quanta gioia di vivere, quanta!), la bambina che in tutto il giorno ha mangiato un solo cucchiaino di yogurth e non si capisce perchè, i nonni, da aiutare in qualche modo perché ormai vecchi, malatissimi e lontani, inesorabilmente lontani da casa tua (i miei addirittura in un’altra città), e quelle notti dei tuoi due vecchietti passate lì dove sono, anziché vicini ed a portata del tuo aiuto, ti spaccano veramente il cuore e ti tolgono , se non l’ energia, sicuramente proprio del tutto la fantasia di fare la stronza  – anzi, la Stronzy – a muzzo.

 Io quindi vorrei dirti: non ti devi stupire se le tue performances lavorative non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelle di Stronzy, perché lei/lui può essere tutt* lì, concentrata nelle sue Stronzy-ate, mentre tu, no, assolutamente proprio no.

Smettila anzi di sentirti in colpa e considera la verità, cioè che lui/lei è aiutat* (buon per lui/lei!) da mille differenti parti, dalla sua indole anaffettiva e per nulla propensa alla compassione, oltre che (o forse soprattutto) dalla famiglia, che Stronzy ha, eccome se ce l’ha! e che pazientemente lo/la sopporta e supporta. Tu, tu invece fai veramente tutto da sola. Quella a cui ti ha imposto di partecipare è una competizione che esiste solo nella sua mente, perché nella realtà nel tuo ufficio c’è spazio per tutti, ma se esistesse veramente una gara di questo tipo, è chiaro che verrebbe combattuta ad armi del tutto impari. Lui/lei ha l’energia di avere per obiettivo di distruggerti, screditarti, superarti, tu puoi solo permetterti di lottare per stare a galla.

Devi arrivare anzi a realizzare che se lui/lei fosse al posto tuo l’avrebbero già ricoverat* da tempo alla neurodeliri, perché ha una personalità infantile ed incapace di qualunque forma reale di autonomia. Ma tu fai troppe cose insieme, e soprattutto hai troppe cose tutte insieme in testa, sei troppo stanca per avere la forza e il distacco di fare ora queste considerazioni: infondo sei stata educata a stimarti troppo poco per avere davvero i riflessi di annusare e ridimensionare il caso umano travestito da mobbizzatore/trice che hai davanti. Quindi, io ti assolvo e anzi ti dico: affronta tutto come puoi, e ok, metticela tutta, sempre, ma impara a non sentirti 50 kg di letame seduti alla scrivania tutte le volte che cadrai per gli sgambetti di Stronzy: tu non hai avuto nemmeno il pensiero di valutare lontanamente l’esistenza di queste trappole, mentre lui/lei ci ha studiato su per ore, forse per giorni interi.

Tu sei la sua ossessione, senza saperlo. Del resto, io personalmente come disabile a lavoro sono stimata, a prescindere da ogni mia eventuale performance ed ogni bastone che mi possa mettere qualunque Stronzy tra le ruote, poco più di una scimmia parlante. Posso dirti che ho avuto anche vicin* di scrivania che letteralmente hanno costruito la loro carriera sui miei problemi di salute. Una mia ex collega è arrivata a dire al capoufficio di quel momento che avevo prolungato le ferie di Natale, invece ero in ospedale, ricoverata a causa di una crisi di ipopotassemia, paralizzata e con una merDavigliosa sonda nel collo. E ci sono rimasta a lungo! Ferie lunghe, lunghissime, a sciare a Cortina eh! Al mio ritorno in ufficio ero così sconvolta da tutta quella pesantissima esperienza in ospedale (che un giorno racconterò) che ci ho impiegato letteralmente anni per capire la cosa orribile che aveva fatto ai miei danni questa collega. Quindi, palla al centro e ripeti con me: sono umana e ho tantissime cose che non vanno, tantissime bambole da pettinare, mi impegno al massimo, ma non posso materialmente pensare di frantumare tutti i piattelli che mi vengono lanciati. Quando il dio dei piattelli distribuiva la mira, io evidentemente sarò stata in coda per i problemi di salute 😊

Ora, vorrei donarti questo mini-vademecum su come agire una volta che hai capito di avere a che fare con Stronzy. L’ho messo insieme in 20 anni e più di lavoro, e Stronzy, credimi, ne ho incontrati tant* ma tant*ma di quei/quelle tant*:

1 – mai raccontare i fatti tuoi: Stronzy inizialmente farà la/il simpaticona/e, ti offrirà il caffè, ti darà confidenza e a te sembrerà di avere trovato un’amicizia lavorativa. Falso: attenzione, perché ogni cosa che sarai indotta a confidare in questa fase di tarallucci e vino sarà usata sapientemente contro di te. Stronzy va salutato/a (nella mente) tutti i giorni dicendo un bel “Under His Eyes!”. – e se hai letto o visto “I racconti dell’Ancella” sai cosa intendo.

2- anche dal punto di vista lavorativo ti ripeterà centomila volte di chiamarla/lo o parlarle/gli se hai dei problemi, ma è falso, falsissimo. Tienil* il più possibile fuori, sia da quello che pensi dei colleghi etc sia da cose che temi davvero, eventualmente, di aver sbagliato. Lui/Lei è lì nell’ombra che attende di portare sempre tutto alla luce peggiore per te, di metterti in difficoltà;

3 – cerca il più possibile di comunicare con Stronzy per iscritto, lo/ la metterai in difficoltà, perché a lui/lei costa lacrime e sangue mettere 3 parole di fila in una email. Userà probabilmente come segno di interpunzione i puntini di sospensione al posto di tutta la punteggiatura esistente, perché ha frequentato l’Università della Vita e anche personalmente non ha mai letto altro che le cagate sui social e forse prima dei social qualche aforisma dei Baci Perugina, quando era piccol*. Perde davvero tempo e si irrita a scrivere (oltre al fatto che intuisce, sagace come un macaco fuscato, che lo/la stai prendendo per il culo alla grande: stai verbalizzando ogni vostro contatto, intanto giusto così, per vedere l’effetto che fa);

4 – nelle comunicazioni cerca di coinvolgere colleghi “neutri”, cioè che sai che non nutrono particolare simpatia né per te né per lei. Non ti stupire se nel giro di breve tutto l’ufficio ti sembra ostile! Del resto, lui/lei mentre tu nelle pause sei chiusa in bagno col tiralatte meccanico attaccato alle tette che straripano, (per continuare ad avere prezioso latte materno da offrire al/alla tu* pup*, quando andrai a prenderl*, perché ricordati: avrai solo a che fare con pediatri violentemente antivax, perciò l’unica chance di tu* figli* per sopravvivere al brodo primordiale del nido saranno gli anticorpi che potrà eventualmente continuare a ciucciare col tuo latte) sta sul balcone a fumare con capi e dirigenti vari. Lui/lei ha tempo di fare public relation, anzi, è un/una ver* maestr* in questa arte. Tu, invece, puoi solo pagaiare furiosamente, nella tua vita lavorativa e non, perché hai tante di quelle cose per cui devi remare! Non ti scoraggiare e vedi al punto sotto;

5 – tutti sotto sotto odiano Stronzy, anche, o forse soprattutto, quelli che gli/le si accompagnano al caffè e sembrano suoi amici. Lui/lei nel tempo si è comportat* talmente male, ha smerdato sempre e solo talmente tutti, che questa cosa ha il suo perché. Vai oltre le apparenze e cerca di fare squadra con quelli che scoprirai essere i suoi detrattori: non lo immagini neppure, perché fuori da briefing e riunioni sembra estremamente simpatic* e popolare, ma sono parecchi quelli che in tasca fanno le corna quando la/lo incrociano nel corridoio. Ricorda sempre che there’s a power in a Union, come dice il bellissimo inno dei sindacati dei minatori inglesi;

6 – io ti consiglio di non parlare a tutti del fatto che ti senti perseguitata e mobbizzata da quest* collega (“Under his eyes”, ricordi?), ma ma ma… si vis pacem, para bellum: parlane eccome con il vostro comune capoufficio, con toni il più possibile pacati e neutri, ma decisi. Facilmente lui tenderà a sminuire il racconto delle angherie che gli state facendo e vi risponderà che così va il mondo e non bisogna vittimizzarsi – perché è normale che di fronte ad un abuso, la prima a finire sul banco degli imputati sia la vittima. Però è solo una reazione di facciata, perché, se vale appena più di qualcosa, qualunque capoufficio non può fare finta che il discorso che gli state facendo non esista. Un campanello di allarme sta suonando nella sua testa, anche, in alcuni casi addirittura soprattutto, se abbozza o minimizza;

7 – inizia pure a cercarti un buon supporto, qualcuno che conosca bene la normativa aziendale e sappia consigliarti con cautela ma con l’obiettivo di migliorare la tua situazione: iscriviti ad un sindacato, in questa situazione sono soldi ben spesi;

8 – impara, per principio, a mettere in dubbio ogni affermazione di Stronzy. Quando dice che è il capo ad aver detto di chiederti di fare una certa cosa, dì subito OK, poi chiama o mettiti in contatto col capo o con un suo vice sufficientemente autorevole. Non dire che Stronzy ti ha detto di fare…perché spesso cane non mangia cane, potrebbero esserci delle ragioni che tu non conosci per non smentire l’orrid* Stronzy. Chiedi invece genericamente al capo informazioni sulla cosa che ti ha detto di fare il/la collega mobbizzatore/trice: vero che devo fare…devo chiamare…questo lavoro va fatto così?

8 – mai polemica diretta con Stronzy, lui/lei è un/una provocatore/trice, non aspetta altro che un bel vaffanculo da parte tua, e magari di fronte a testimoni! Sa benissimo come volgere ogni scontro a suo vantaggio, vive letteralmente per questi momenti! Evita di passare dalla parte del torto pubblicamente. Quindi, sempre buongiorno, buonasera, come stai cara/o, ok lo faccio. Poi ragiona con la tua testa su cosa ti ha detto di fare e valuta eventualmente se chiedere ulteriori spiegazioni, ma certo non a lui/lei;

9 – se il peso dei dispetti e dei dispettucci si fa gravoso per il tuo equilibrio psicologico, (ricordati sempre che quello messo in atto nei campi di concentramento era una forma massiva di mobbing violento: tu sei sottoposta allo stesso tipo di trattamento tutti i giorni, per un tot di ore al giorno, se sei fortunata da una sola persona), se scopri che volente o nolente hai sempre in mente il viso di Stronzy e la sua voce nelle orecchie, attenzione attenzione! stai facendo il suo gioco, senza volerlo. Lui/lei è letteralmente ossessionat* da te, si lambicca il cervello per capire come farti cadere, sapendo bene che questo lavorio piano piano potrebbe sgretolarti fisicamente e psicologicamente, se non troverai il modo di sottrarti. Io, per non cascare in questo meccanismo, uso una visualizzazione di questo tipo: evoco la parola NO come se nella mia mente fosse scritta a caratteri cubitali su un enorme foglio bianco. Mi dico NO con forza e resetto il pensiero della sua orrida facciona, della sua voce, della brutta sensazione che mi danno le sue cattiverie. Ricorda: il tempo che perdi a dare retta alle sue fregnacce in orario lavorativo è già troppo;

10 – se poi purtroppo butta proprio male e devi rivolgerti ad un avvocato, scegli un giuslavorista, magari tramite qualche associazione di disabili: spesso su questi temi lavorano come fabbri, visto che il mobbing già di per sè è diffuso, ma verso disabili è DAVVERO diffuso. Fatti consigliare da qualcuno che abbia già maturato una esperienza in merito, non andare da un legale a caso, perché sapendone poco ti dirà solo che il mobbing non si può provare. Altra fregnaccia! Ricorda: anche agli internati nei campi di concentramento i nazisti ripetevano che tanto nessuno, quand’anche fossero usciti vivi di lì, gli avrebbe creduto;

11 – Ridi. Davvero! Fai l’imitazione di Stronzy con le tue amiche. La risata ha il potere terapeutico di tagliare le gambe ai/alle mobbizzatori/trici  e di sollevarti lo spirito, che è ciò di cui, nella tua esistenza già risicata su mille fronti, hai decisamente bisogno. Tu non hai nessuno a casa con cui litigare, ma spesso anche nessuno, nessun adulto, con cui parlare! vivi con tu* figli*:  un/una bimb* piccol* da allevare, con il/la quale hai il dovere morale di cercare di essere serena il più possibile. Io più di una volta ho pianto per problemi di mobbing davanti a mia figlia (per problemi di mobbing!!!con tutte le bambole che ho da pettinare!!!da non credersi.), poi, passata la tempesta emotiva, le ho spiegato che anche la mamma a volte è triste o preoccupata e ha bisogno di sfogare le sue emozioni con un bel pianto. E non c’è niente di male.

Ma quelle sono state le volte in cui dentro di me ho deciso che il bicchiere era colmo, la situazione doveva cambiare, e sono sempre riuscita a rimettermi in sella e in qualche modo a risolvere o scappare.

Io sono sicura di una cosa: ci riuscirai anche tu!

CHIUDERE IL BECCO ALL’UNIVERSO – CHAPTER 1

Sabato scorso ero lì che smanettavo nella borsa alla disperata ricerca del bancomat per pagare la mia adorata parrucchiera. 120 euro, ormai andare a farsi i capelli è una visita specialistica, ma che le vuoi dire? lei è quella che mi rimette al mondo e mi  accontenta in tutti i miei schiribizzi, tipo di mullet biondo grano su sopracciglia nere come la notte in cui tutte le vacche sono nere, tagli risicati in cui rischiano come niente di vedersi gli impianti – cosa di cui i miei parrucchieri, nel tempo, hanno avuto il sacro terrore, non ho mai ben capito perchè – ed altre mille giravolte, che costano ore e ore di paziente lavoro.

Dopo una manciata di ore passate in un rilassantissimo silenzio ben oltre l’Assoluto – io ho appunto due impianti cocleari, che devo togliere dal lavaggio dei capelli in poi – con la pupa dai nonni (per quanto siano gli ultimi giorni di Pompeo, visto che mio padre sta sempre peggio), in un momento, insomma, in cui  i pianeti sembravano allineati, la mia dolce e bravissima parrucchiera mi spara la bomba a mano dritta dritta in un occhio:

eh peccato eh per la bambina

e i figli si fanno in due

ma lei soffre?

ma lei ti chiede del papà?

una smitragliata di domande che, vi giuro, mi lascia tramortita, anche perché capisco in quel momento che la Patry responsabile della migliore nuance che abbia mai avuto in testa (e non dei soliti Disaster Color fatti in casa) ha realizzato adesso, solo adesso, dopo un anno circa di assidua frequentazione, il mio status ontologico di mamma single e si sia subito, di conseguenza, sentita in diritto di dire la sua. Ma cosa immaginava, penso, che mi presentassi con la scatenata quattrenne in salone, le volte che l’ho portata, magari alle 9 di mattina di sabato, per “lasciare dormire” un mio ipotetico maritino???chè, mi ha presa per quelle mamme del Mulino da “ce l’hai una scopa da mettermi in cXXo, così ti ramazzo la stanza??”

Ed ecco che arriva la Disaster Opportunity, servita su un piatto d’argento: in un attimo, come la fantasia di Mozart partorì da una ramanzina della suocera sulle sue abitudini di tiratardi spendaccione la Regina della Notte del Flauto Magico (stando a una magnifica, magistrale scena che vorrebbe ricostruirne la genesi, in “Amadeus“ di Milos Forman) la mia mente ha partorito in quell’istante scomodo una serie di risposte per farla finalmente finita con le cazzate delle persone impiccione che siete costretta a subire da persone di passaggio, che si arrogano il diritto di giudicare ignorando TUTTO della vostra vita di mamma singola.

Partiamo dal presupposto che la vostra scelta di vita, sia andata come sia andata, di crescere un* figli* da sole, nella nostra italietta, patria del patriarcato becero e della fottutissima “famiglia del Mulino”, è ancora oggi, nel 2020 in cui viviamo, a dir poco pionieristica e rivoluzionaria. Essendo percepite come delle pioniere, quindi, sarete giudicate come solo gli avanguardisti maudit più incazzati lo sono stati: cioè letteralmente SEMPRE, in ogni cosa. Sarete segnate col dito, incasellate in categorie che magari neppure vi immaginate possano esistere nella mente del nullafacente esistenziale che avete davanti – perché ricordate che le peggiori domande vi arriveranno addosso come una pioggia di fuoco per la noia e l’inerzia del vost* interlocutore/trice, che magari manco ha per la mente di ascoltare la vostra risposta.

Fatta queste doverose premesse, andiamo al sodo:

  • Ma il papà si fa vivo? Ma ogni tanto vede la bambina?

Risposta: ATTENZIONE: la premessa maior di tutte queste risposte che vi consiglio di dare è sempre solo una, e cioè: voi NON dovete spiegazioni alla persona quasi sempre del tutto estranea che vi sta facendo questa domanda. Sembra che io vi consigli di scoprire l’acqua calda, eh? Ma io, per esempio, che ho avuto una educazione in cui mi è stato sempre colpevolmente insegnato a stare un passo indietro e a testa china rispetto agli altri, ci ho messo un po’ a capirlo.

Quando sono rimasta incinta, pensavo che avrei sempre solo avuto davanti persone solidali con me, poi poco per volta mi sono resa conto che manco ma proprio manco per il cazzo!! I solidali con voi saranno una manciata, gli amici intimi, gli altri per ammazzare la loro noia esistenziale, o per ignoranza o solo così per vedere di nascosto l’effetto che fa vi giudicheranno con violenza e cattiveria. Siate pronte! E fregatevene sempre (altro sotteso…ma anche lì, io ci ho messo anni a capirlo, perciò ve lo dico apertamente).

Tornando allo stronzo che vi sta importunando con una domanda così personale, magari pure alla portata delle orecchie de*vostr* figl*, che ,magari magari, sono pure in età tale da comprendere perfettamente il senso di quello che hanno sentito, io vi consiglio: un bello sguardo fermo, dritto negli occhi – poche persone reggono lo sguardo dritto negli occhi che vi verrà in quel momento – con tono  fermo, che non ammette repliche (che però può anche essere un tono cortese, eh. Chuck Norris lasciatelo stare):

 non mi va di parlarne/ non voglio parlarne ora/ è una storia lunga.

Risposta vaga ma assai circostanziata, se non avete davanti un pirla totalmente insensibile al richiamo del VAI A CASA A FARTI UNA TAZZINA DI CAZZACCI TUA, capirà l’antifona e farà marcia indietro;

  • Ma lei/lui (riferita a vostr* figli*) soffre per questa mancanza?

Attenzione perché nella mente della persona che sta pronunciando queste parole voi siete la stronza che ha schierato l’esercito sotto casa per evitare contatti tra lui, anzi, Lui,  il meraviglioso e bravissimo papy di vostr* figli* e il/la vostr* bambin*, che, quindi, di conseguenza sta (nella fantasia del* coglion* che fa questa domanda) subendo una decisione tutta e solo vostra. Ma vi risparmio il tempo di fare questa riflessione, sparate lì un bel

  • “No” secco e chissene;
    • Chissà – la buttate sull’ironico (è ovvio che una cosa del genere per voi non può essere un CHISSA’, visto che occupa tutti i vostri pensieri la potenziale sofferenza o non sofferenza di vostr* figli* per l’assenza del padre, ma se non avete davanti proprio una Mildred Ratched, lascerà perdere, avvertendo il filino di ironia insito nelle vostre parole)
    • Vedi punto 1: occhi negli occhi e un bel NON MI VA DI PARLARNE. E passa la paura!

Queste sono le domande che più spesso mi è capitato di registrare da perfetti estranei (vicini di casa in vacanza, padroni di casa da cui affittate, parrucchiere, gestori di negozi in cui magari andate spesso….), ma attenzione perché la bomba può sganciarvela come niente anche una persona che conoscete più o meno bene – non un ver* amic*, perché lui/lei sa esattamente cosa significa per voi essere mamme single, come ci siete arrivate etc etc etc, quindi non vi farà mai domande stupide e inopportune sul tema.

Ma per esempio, quel collega non proprio d’ufficio ma che lavora nella vostra stessa azienda, con cui vi scrivete da tempo immemore e che un po’ vi conosce (alias: sa o pensa di sapere un po’ di cazzi vostri)

..quella tata che chiamate spesso ma non spessissimo….

…la maestra di religione (sì, mia figlia fa religione anche se io sono totalmente atea, perché in ogni caso è cultura e poi non è che perché sono atea io deve diventare atea anche lei)….

Insomma qualcuno che conoscete anche abbastanza, ma che non è vicinissimo al vostro cuore, un bel giorno si sentirà in diritto di uscire con un bel

  • Eh ok, la psicoterapeuta infantile con due lauree e decine di anni di esperienza al Tribunale dei Minori, dove ne ha veramente viste di cotte e di crude, ti dice che è meglio che il padre non ci sia piuttosto che ci sia ma sia un cattivo padre, ma tu che cosa le hai raccontato in seduta?

A quel punto, anzitutto riconoscete questa domanda per quello che è, cioè l’aria data ai denti da una persona che non vi vuole poi tuuuuuutto questo bene, che non sa come sono andate le cose, non ha la sensibilità di capire che sta dicendo parole che per voi sono macigni. Quindi le dice, con la leggerezza con cui butta giù uno jaeger alla fine di un lauto pasto -rigorosamente sedut* a tavola con la Famiglia del Mulino…perché, sappiatelo: il grado di bigotteria che finalmente rivela un individuo capace di dirvi una cosa del genere è pari solo alle cagate uscite da uno spot pubblicitario, nella realtà non può essere, se non in una realtà retriva, patriarcale, stronza, che a voi non interessa in realtà manco che esista.

Detto questo, adesso penserete: quindi prendo la mira e lo/la impallino con una risposta di quelle al sapor di all’acido per batterie? Invece…invece sentite il consiglio della Disaster, che una volta si faceva venire l’ulcera per i giudizi universali che le piovevano tra capo e collo in continuazione: lasciate cadere.

Qualcuno vi ha chiamato proprio ora, dovete andare.

Guardate l’interlocutore senza dire nulla se non allora a presto, eh?

 Lasciate cadere le cazzate nel vuoto, in qualunque modo che volete voi: nella vostra mente è scattato il traduttore simultaneo italiano- mandarino, quindi non avete proprio capito la domanda. Sayonara (ah ok, è giapponese).

Una regola generale è che più la domanda alle vostre orecchie suona deliberatamente offensiva, più è oziosa o viene da un contesto che (poi lo scoprirete, magari per caso) spiega molto.

  • ma il/la bambin* la/lo cercavate o è arrivat* così?

questa è più o meno l’over the top delle domande assurde sulla mia mammasingolaggine.

….ma chè, secondo te cerchiamo un bambino e poi la persona con cui l’ho concepito se ne va???

Ammetto di essere stata sconcertata dalla stupidità che mi rivelavano di sé le persone che mi hanno fatto questa domanda, e credetemi ce ne sono DAVVERO state.

Però, capite anche cosa c’è dietro: o una persona veramente stupida, e lì amen, non c’è ahimè nulla da aggiungere, oppure oppure ecco che….mesi e mesi e mesi o magari anche anni dopo scoprirete che vi ha fatto questa domanda una persona che nonostante da tempo immemore si torturi con ogni forma di sostanza chimica, puntura, punturina, trattamento, pellegrinaggio con nuotata in acque “sante”, proprio non riesce a restare incinta. Quindi non può sembrarle vero che un bimbo arrivi così, anche inatteso e come una grande sorpresa nella vita di un’altra donna. Non ce la fa quel cervello obnubilato da un dolore troppo grande, perché immagino proprio sia un dolore enorme. Quindi, anche lì, una prece. Nessuno voleva volontariamente essere cattivo con voi.

Queste sono alcune delle domande sulla mia single-mom-aggine che mi sono venute in mente così su due piedi, e voi? Quali sono le domande più stupide, cattive o imbarazzanti a cui avete (o avreste voluto…magari con un bel pugno sul naso) rispondere sul tema?

IT’S TIME TO GLOW UP

Mentre decido di tenere in caldo il pezzone sul mobbing che ho in canna ormai da settimane e settimane – ma ogni giorno non mi sembra quello giusto per pubblicarlo, perché, lo ammetto, è gustoso e divertente e anche serio e se ci finisse mai qualche naso di qualcuno delle persone sbagliate, forse rischia di attirarmi qualche fulminaccio… – passo ai consigli per gli acquisti, ovvero: cosa fare in una di quelle sere in cui ci si sente la testa pesante, leggere è fuori discussione, la doccia bollente post cena non ha sortito l’effetto rasserenante desiderato, la pupa si lagna e si ha la testa piena di pensieri come un cielo carico di nubi violacee pronte a piovere con violenza la Madonna e pure Gesù Cristo? Beh semplice, sintonizzatevi su Netflix e cercate “Glow up” . No, non “Glow” (anche quella, serie super godibile e di cui ho intenzione di scrivere presto), si chiama proprio GLOW UP, ed è un reality su….sul mondo del make up e dei make up artist.

E voi direte: E CHISSENEFREGA?? Onestamente, io ho iniziato a guardarla davvero distrattamente, più per curiosità antropologica e pigrizia, visto che di tutti gli interessi che posso avere sul pianeta quello per il trucco e i cosmetici è veramente il numero trentamiliardinovecentoquarantamilaeuno. Prima c’è un mondo intero, ai miei occhi, più degno di essere visto e raccontato, ma tant’è, invece questo reality-gara-miniserie (due sole stagioni) mi ha davvero stupito, perchè è fatto così bene, è così leggero, pur senza mai essere stupido e superficiale, da avermi spinta a scriverne.

Anzitutto il cast è notevole: i ragazzi selezionati danno tutti l’impressione di essere persone molto gentili, di bell’aspetto e curati (come in fondo ci si aspetta da un* appassionat* di make up), ma non facce di plastica tutte uguali come si vede nella tv italiana -soprattutto nell’orrido genere reality, che in Italia è proprio improponibile tout court. Inoltre si stressano e lottano duramente per sostenere la gara, ma continuano sempre a mantenere il sorriso e le belle maniere, ti trasmettono l’idea che infondo stare lì in tv tutti laccati e perfetti a mostrare delle qualità tutto sommato non facili (io per esempio mi metto la riga di eyeliner e il mascara da una vita, da sempre, ma oltre quello non vado) sia una passeggiata di salute.  

I giudici sono a quanto pare (io sono profana ed ammetto che non li conscevo) dei veri pezzi da 90 del mondo del trucco: Val Garland (super responsabile megagalattica di l’Oreal) e Dominic Skinner, (altro super mega deus ex machina di MAC …se non mi sbaglio, ma potrei, vado a memoria), ed è davvero dal mio punto di vista apprezzabile l’aplomb con cui criticano o lodano i lavori dei concorrenti, senza mai scadere nella maleducazione dell’insulto semi-gratuito ed esagerato tipico del mondo dei reality italiani, dove i giudici per “fare spettacolo” a volte davvero esagerano ed umiliano i concorrenti.

La mia preferitissima, spiace per Dominic Skinner, è Val Garland, vestita sempre molto più che bene -intendo rivedere questo reality-miniserie per studiarmi con più attenzione ancora gli abiti che sfoggia puntata dopo puntata, assolutamente geniali – con orecchini, collane, giacche e persino la montatura degli occhiali da super urlo. Poi è un personaggio che trasmette genuinità: da’ l’impressione di appassionarsi davvero alle vicende dei ragazzi che si combattono senza sosta a colpi di pimer e illuminante; si commuove, si incazza, si esalta con loro. DING-DONG DARLIIIIIN’!!!!M-E-R-A-V-E-L-L-O-U-S!!! – vi resterà nelle orecchie per settimane questo modo di dire, e vi scoprirete a gridarlo a vostra volta a vostr* figli* quando andrà a recuperare il vasino da sol* per fare la cacchina santa mentre voi sarete intrappolate nell’ennesima conference call della giornata col capo del capo del capo del capo.  DING DOOOOONG DARLIIIIN’ – schiaccerete per un istante il tasto off per togliere il volume alla call che state faticosamente cercando di seguire da mezz’ora per dirlo alla vostra creatura, accennandogli/le pure un applauso.

Dei concorrenti simpatici ho già detto, ma vorrei aggiungere un elemento che mi ha fatto davvero amare questo programma, mi ha fatto capire quanto sia proprio pensato bene. Si vede una categoria di persone altrove accuratamente evitata: entrano infatti in scena spesso modelli da truccare di una certa età e i ragazzi si cimentano a fare dei make up della stramadonna addosso a persone dalla pelle matura. Ho trovato questa cosa – scusate se è poco – davvero bella ed importante. Finalmente, seppure per il momento solo in questo show, il dorato mondo della tv non si ostina a mostrare solo gioventù e bellezza assolute ma tenti di rappresentare anche persone non nei canoni “normalmente” considerati. Ho visto che da qualche giorno Glow Up è tra gli show più visti di Netflix, insieme a Ratched (miniserie di 1 sola stagione che è una sorta di prequel della storia dell’infermiera di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, per spiegare al pubblico perché sia diventata così carogna…imperdibile) e ad altre (Pose, vi prego, Pose DOVETE vederla!!!): mi sembra che attraverso questa serie si vogliano finalmente dare dei bei messaggi, tipo una prima, doverosa spallata all’ageing, che, come molti “-ing” del mondo, speriamo sia presto destinato a scomparire.

Accattatevillo! Glow Up caldissimamente consigliato!

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